Quando si parla di arte contemporanea italiana, Gianfranco Baruchello è certamente uno dei nomi più importanti in circolazione. Nella sua opera multiforme, il cinema – ma sarebbe forse da dire l’immagine audiovisiva – è certamente qualcosa di rilievo. Lo si può capire sfogliando Gianfranco Baruchello, Archive of Moving Images 1960-2016 (Mousse Publishing, 38, edizione in inglese e italiano), libro uscito a fine 2017 – la cura è di Alessandro Rabottini e Carla Subrizi – e legato alla personale dell’artista tenutasi a La Triennale di Milano qualche anno fa. Il volume si presenta da subito come uno strumento utile per la mappatura del lavoro filmico e video compiuto dal nostro nel corso dei suoi anni di attività – ci sono le schede delle opere, supportate da un degno corredo visivo. Ma l’importanza di questa pubblicazione sta anche nei molti documenti raccolti – in riproduzione anastatica – e nella selezione di testi sul cinema dello stesso artista, qualcosa che vale la pena approfondire. Inoltre, a tutto questo vanno aggiunti i saggi dei curatori, uno scritto dello studioso francese di immagini Philippe-Alain Michaud, ma anche una conversazione tra il noto curatore e critico d’arte Massimiliano Gioni e lo stesso artista.

Come anticipato, il volume in questione è sicuramente una occasione per saperne di più su quello che potremmo chiamare il pensiero visivo di Baruchello, in relazione all’oggetto film. Alla base, c’è senza dubbio l’intersezione tra sguardo e immagine. Se, come dice, «fare o guardare immagini non è come dire o ascoltare parole», la conseguenza è che lo stesso fare cinema si configurerebbe, per il nostro, come una pratica che in un modo o nell’altro si sottrae a riduzioni linguistiche. Si potrebbe parlare di una scrittura al di qua o al di là del linguaggio. A tutto questo credo possano venire aggiunti altri due elementi che si ritrovano nei suoi scritti sul cinema presenti nel volume: l’interesse nel fermo immagine come idea e l’importanza che pone nella meraviglia. Nel primo caso l’artista insiste sul carattere paradossale del movimento nel cinema, la sua illusione di continuità e la sua fatale tendenza alla fotografia, dal momento che «per capire, vedere i fatti, gli eventi, gli accidenti in sostanza occorre fermarli nella mente sia per analizzarli sia per farne immagini ferme nei modi della pittura.» Da qui si potrebbe ipotizzare l’uso della settima arte, per Baruchello, come una specie di rivelazione sulla sua pittura. Quanto al secondo caso, si tratta di qualcosa di fondamentale per la creazione ma che deve rimanere inespresso, dal momento che l’artista vive «di meraviglie segrete ed entra in crisi proprio quando questo suo meccanismo occulto viene violentato e scoperto da estranei.»

Ora, gli elementi menzionati si possono rintracciare in un’opera capitale come Verifica incerta (1964-65), film firmato assieme a quel genio che fu Alberto Grifi, ma senza dubbio sono presenti anche in altri lavori, più o meno noti. Più in generale, quello che questo volume aiuta a ricordare è la singolarità di un cinema d’artista teso alla «dispersione esclamatoria», in cui l’autore è operatore. Come lui stesso scrive, e con ironia: «Insomma, non sono un cinefilo né un cineasta anche se sono finito in enciclopedie storiche e cineteche di museo. Però ho libri sugli effetti speciali, compro manuali hollywoodiani sul trucco, amo (per riderne) i linguaggi tecnici legati al mestiere del cinema: ma tutto questo serve più al mio lavoro di pittore che alle mie attività di cineoperatore selvaggio.»