Che strano, ho conosciuto Giancarlo in un altro mondo, un’altra età. Ma nell’appartamento di fianco a quello dove da tempo ormai abito, nella piazza del paese.

All’epoca ospitava un circolo universitario. Un gran bigliardo troneggiava nella stanza più grande, al centro di tutto. Giancarlo era in delegazione da Bari, dall’università occupata. Avevano deciso di fare un giro in provincia per spiegare cause e ragioni di quella rivolta. E qui da noi, in quel ritrovo goliardico, avevano pensato di invitare – magari per fare ‘ammuina’ – anche le future matricole, i maturandi di liceo.

C’ero anch’io. Stavamo anche noi per occupare e toccò a me spiegarne le ragioni. Con emozione – e tanta confusione – mi si accavallavano in testa e in bocca mille questioni: dal no alla guerra in Vietnam alla riforma dell’esame di maturità, passando per il torto compiuto all’ultimo supplente di filosofia. A complicare il tutto le interruzioni calcolate degli ‘anziani’ – e di qualcuno decisamente ‘fascio’ – verso uno che non era nemmeno ‘matricola’: «come?», «cosa?», «spiegati meglio …».

Improvvisa si levò una voce, alta ma decisa, calma: «Lasciamolo parlare». E fu silenzio. Stupito mi volsi e guardai l’universitario sconosciuto: gli feci, grato, un cenno col capo. Ripresi come potei. La discussione fu poi serena, anche proficua. In molti, rinfrancati, presero la parola.

Alla fine, lo cercai con lo sguardo, senza fortuna. Un paio di settimane dopo, in un incontro tra delegazioni di scuole occupate in università, lo ritrovai e ci presentammo. Era Giancarlo Aresta: un mito tra gli studenti.

Non ci saremmo più persi di vista e di gomito, tra i luoghi e le sedi più diverse, editoriali o politiche. Con una vita che trascorreva dal pubblico al privato, in famiglia e con gli amici più cari. Fortissima la solidarietà, essenziali le certezze, tra cui unico davvero il suo stimolo a cercare, comprendere, scavar sodo.

Un ricordo indelebile tra i tanti a far da faro. Come segretario provinciale del PCI a Bari, mi aveva proposto in segreteria a seguire lavoro ed economia. Mi toccò invece immediatamente la grana di un grande comune, roccaforte bracciantile, rossa da sempre, preda ora di convulsioni negli strati più precari. Le prime crepe aperte nell’indotto del siderurgico a Taranto scuotevano già allora tutt’intorno un mondo di subappalti. E nell’isola rossa della Murgia una folla di edili disoccupati – aizzati da un largo sottobosco politico – chiedeva a gran voce il “liberi tutti” in urbanistica. Sotto tiro i dirigenti comunisti del tempo, dipinti come nuova casta. Fortissime le frizioni intestine tra i militanti arroccati nelle tre sezioni di paese e il gruppo consiliare, tentato dal grande abbraccio di ceto politico con una DC arrembante. Una precocissima anticipazione dei tempi a venire, della slavina che dall’89 e per il trapasso di secolo avrebbe fatto macerie di tante conquiste.

A me toccava il soccorso continuo a quella comunità. In emergenze estreme, col concorso di Giancarlo: quand’era d’obbligo la presenza del “segretario”.

Limpido mi si staglia in memoria un pomeriggio assolato. Stiamo correndo in macchina sulla Murgia, per tamponare l’ennesima frattura. Lui guida, io leggo. Improvvisa una frenata mi scaglia quasi contro il parabrezza. Giancarlo accosta e mi fa: «Siamo sicuri di quello che facciamo? Tu che dici? Serve davvero?». Dopo un lungo silenzio, ci rimettemmo in moto. C’eravamo intesi.

A turbarci un identico rovello. Guardavamo un precipizio: vi franava un mondo intero, senza più le fondazioni e gli argini di un tempo. Coi nostri sforzi riuscivano forse a rallentare il tutto. Ma c’era un dovere: cercare, cercare ancora.

Per anni poi nelle sedi più diverse, dopo l’89, ci è toccato spesso in momenti cruciali di guardarci – un po’ più ammaccati – e accennare un sorriso. Sono sicuro che pensavamo a quella frenata, a quello strano modo di bloccarci a contemplare l’«Angelo della Storia» di Klee, trascinato da forze immense nel futuro, lontano dal rovinare continuo del presente.

Chissà se e come avrebbe ancora frenato Giancarlo di fronte al Nuovissimo Angelo che svolazza nella tempesta dei nostri giorni.