[Pubblichiamo stralci da una intervista uscita su queste pagine il 17/07/1999, in occasione di una lettura pubblica che Giancarlo Majorino, scomparso a 93 anni, fece ad Ancona; era allora in uscita per Garzanti (collana «Gli Elefanti») il suo volume antologico che raccoglieva i quarant’anni di attività poetica].

L’originalità inquieta della forma e la forte consapevolezza etico-politica caratterizzano la produzione di Giancarlo Majorino che ama definirsi un poeta picassiano.
Si ha l’impressione che dopo la mareggiata degli anni Settanta la poesia sia tornata ad assetti chiusi, tutto sommato tradizionali. È così?
Si è formata una forte corporazione poetica, con aspetti di conservazione legati al ruolo. I poeti più importanti sono quasi sempre degli isolati che non godono di attenzione. Peraltro io mi ostino a pensare che la poesia abbia valore non solo in sé ma anche in rapporto all’altro da sé: questo però esige un continuo rinnovo di strumentazione teorica. Tutti, superficialmente, leggono tutti e ciò produce una mancanza di originalità, perché oggi l’originalità vera implica un coraggio tremendo, per esempio stare molti anni senza essere seguiti.
Anche a livello della scrittura, vi sono grandi spinte interne, ma dentro un conformismo sostanziale. Vi è da tempo una spinta al nuovo ma occorre subito distinguere tra l’ignoto del noto e l’ignoto vero e proprio: il primo (ad esempio nella pubblicità) continua a variare su modelli consolidati, l’altro comporta invece tragitti davvero nuovi, non immediatamente tonalizzati al presente. E non abbiamo nemmeno il linguaggio critico per dire cose nuove.
Io, sulla mia rivista appena conclusa, Manocomete, ho teorizzato uno spostamento, la necessità di togliersi e cercare di guardare le cose da un punto di vista più magnanimo, compresa la propria scrittura. Altrimenti ogni no diviene il no di un sì, e quindi ne dipende.

Che bilancio fa della sua generazione specie in riferimento alla eredità lasciata ai poeti più giovani?
Abbiamo una serie di poeti che continuano una loro scrittura seria, dignitosa, diciamo di stile, ma pochi sono all’interno di una rottura ricca. Anche lì c’è una specie di divisione delle parti: la neoavanguardia, venendo allo scoperto con tutta la sua forza organizzativa, fin dagli anni Sessanta, ha operato una sorta di rivolta ma, in realtà, la rivolta era complementare alla tradizione che diceva di voler combattere. Lavori più potenti sono rimasti del tutto isolati, fuori dal discorso. Quindi abbiamo avuto una finta continuità e un finto no alla continuità.
I poeti della mia generazione si leggono con interesse però non hai quasi mai il senso di una poesia che si rapporti anche alle catastrofi che stanno accadendo e da cui non siamo esenti, come poeti. Se magari uno ci prova, rischia di essere accusato di ri-realismo, un termine che ho usato di recente per presentare alcuni poeti in cui c’è una specie di vendetta del quotidiano, o meglio una vendetta del contenuto che, in qualche modo, cerca di farsi valere.
Del resto il problema di una stilistica riconoscibile colpisce tutte le arti e sono rari i poeti in grado di modificare il loro stile, perché sanno che di solito la critica preferisce seguire variazioni solo all’interno di qualcosa che già si conosce. Una volta mi è capitato di distinguere fra poeti morandiani e poeti picassiani: io faccio sicuramente parte dei secondi perché, fra libro e libro, considero necessari dei mutamenti, che possono essere anche significativi.

A proposito di letture: la sua poesia è comunque legata ad una dimensione orale, fisica, teatrale, della parola…
Fin da quando ho fatto, con Fachinelli e altri, la rivista Il corpo, negli anni Sessanta, ho sempre dato importanza alla corporeità (anche allora che non era di moda) e a quella che chiamo l’unica vita, al fatto che ognuno di noi si forma attraverso gli altri. Penso che ognuno di noi sia un singolo di molti, cosa praticamente ignorata dalla filosofia, in genere, mentre è una cosa fondamentale.
Quando siamo con gli altri, in mezzo agli altri, qualcosa passa, la voce, un gesto, un pensiero: il fatto che la filosofia lo ignori fa parte dell’attuale disastro della cultura.
Le persone, per me, sono come dei tunnel fantastici, con il loro corpo e la loro mente, ed è quello che ho cercato di dire insieme con il musicista Bruno de Franceschi in una partitura teatrale, Viali con le ali, messa in scena a Castiglioncello da un gruppo di giovani bravissimi (Teatro della Riviera/Paint Factory/Tacitevoci Ensemble).

Due sono da sempre i termini-chiave della sua poetica: la complessità formale e l’antagonismo ideologico. Vi si riconosce tuttora?
Sono ancora miei con una doppia correzione parziale: una è l’entrata massiccia degli altri, che in quei due termini è ancora implicita, l’altra, invece di una antagonismo che dica sempre no, è lo spostamento nel senso della magnanimità.
La complessità del nostro mondo è senza fine e dobbiamo fare i conti con l’incredibile, ininterrotto, proliferare di ignoto e di dominio che ci circonda. E va aggiunto che, per un poeta, la magnanimità dovrebbe essere il minimo, di fronte alla meschinità dei modelli di vita vigenti; anzi, le approssimazioni di felicità, oggi, per chiunque, sono legate alla distruzione degli stereotipi e dei modelli di successo: senza questo preliminare per così dire «baconiano» nessuna costruzione funziona, nessuna intensità di vita è davvero possibile.