La scomparsa di un compagno e carissimo amico come Giancarlo Aresta ci lascia, oltre al dolore che condividiamo con Alba Sasso e i familiari, un retrogusto molto amaro.

È venuta meno una persona seria e rigorosa, mite e tenace, laboriosa e umile. Sì, Giancarlo non si è mai fatto contaminare dalle smanie presenzialiste ed ha sempre svolto le sue attività con disponibilità e modestia. Eppure, le sue diverse vite si potevano prestare al risucchio del circo mediatico. Ha preferito andare controcorrente.

Infatti. Docente universitario, direttore editoriale della De Donato (palestra della riflessione teorica più impegnata, in una realtà divenuta una vera e propria école). Non solo.

Fu per anni un importante dirigente politico, dal movimento del ’68 alla militanza nel Partito comunista italiano, divenendo segretario della federazione di Bari. E partecipò da protagonista al dibattito (spesso drammatico) seguito alla «svolta» del dopo 1989, quando il Pci cambiò nome e natura. Nella discussione portò opinioni nette, contrarie alle scelte di Achille Occhetto, ma sempre svolgendole con precisione e pacatezza.

Rimase coerente con quella impostazione e scelse via via di impegnarsi piuttosto nel e sul territorio dell’informazione, con il manifesto di cui apprezzava il rigore, così simile al suo.

Divenne tra i responsabili della cooperativa del giornale, accompagnando quest’ultimo in diversi passaggi di una vita complessa e tormentata. Anzi.

Con Valentino Parlato si impegnò in un enorme lavoro di dialogo con i diversi interlocutori istituzionali, contribuendo a tenere alto – insieme alla redazione – una «ditta» che godeva e gode di un prestigio alto e costante. Non per caso, Aresta assunse un ruolo fondamentale nell’organizzazione della Lega delle cooperative Mediacoop, che costituisce tuttora il riferimento di numerosi fogli non profit, di opinione, diocesani e locali. Con il comune denominatore di essere pressoché estranei alle logiche del mercato.

Proprio nella estenuante e annosa lotta per evitare i tagli del fondo dell’editoria – sempre minacciati in ogni legge di Bilancio – Giancarlo ha avuto una funzione insostituibile. Si deve a lui la capacità di dare dignità teorica alla richieste di ottenere una congrua quota delle risorse pubbliche.

Sottolineò che non si trattava di una mera rivendicazione o di un’elemosina benevolmente elargita dal potere politico, bensì di un «diritto soggettivo». Parte integrante dell’articolo 21 della Costituzione. Era (ed è) in questione il pluralismo dell’informazione, che per un esercizio effettivo e non solo formale ha bisogno di un (almeno parziale) abbattimento del muro che separa i grandi gruppi mediali dal resto povero e impoverito del villaggio.

E grazie a tale intuizione l’iniziativa volta ad evitare i tagli ha assunto un peso reale, uscendo dalla marginalità. Malgrado l’allora ministro Tremonti avesse cancellato in era berlusconiana il richiamo al «diritto soggettivo», il senso di quell’acquisizione è rimasto, fino all’ultima legge di Bilancio e al recente decreto «milleproroghe».

E sarà utile nel confronto sull’ormai indifferibile riforma complessiva del settore, di cui in varie occasioni ha parlato il sottosegretario con delega Andrea Martella.
Insomma, Giancarlo Aresta va ricordato per i tanti contributi fattivi che è riuscito a dare a tutte e a tutti noi, nonché ad un vasto movimento che gli è debitore.

Ha offerto un raro esempio di dedizione e di cura degli argomenti sui quali si è impegnato. Senza esibizioni e senza narcisismi. Un esempio di moralità e di stile.

Anche per lui, facendo il verso a Vasco Rossi, siamo ancora qui.