7600 ammalati, 400 morti a causa dell’esposizione all’uranio impoverito: è il bilancio in crescita delle vittime tra il personale militare inviato dai governi del nostro Paese nelle “missioni di pace” in giro per il mondo.

Per ricordare e divulgare questa verità osteggiata e negata dal ministero della Difesa l’Associazione nazionale vittime dell’uranio impoverito, in collaborazione con la Fondazione Dario Fo e Franca Rame, ha istituito alcune borse di studio dedicate ai giovani studenti figli o parenti delle vittime. Faranno parte della giuria Jacopo Fo, artista e scrittore e Gian Piero Scanu, già presidente della IV commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito. Oggi 23, alle 21, dalla pagina della Fondazione Fo-Rame verrà presentata l’iniziativa e fatto il punto sulla situazione uranio impoverito.

Jacopo Fo, perché la Fondazione ha deciso di sostenere questa iniziativa?
Ci sembra una cosa utile in questa battaglia: più persone sono informate, più si conosce questo tema e più si dovrebbe riuscire a diminuire l’impatto disastroso di queste armi. Noi cominciammo a fare informazione su questo tema già qualche anno dopo la guerra del Golfo del 1991. Nel 1999 scrivemmo una lettera aperta a Massimo D’Alema affinché desistesse dall’idea di partecipare alla “liberazione” di un Paese bombardandolo e avvelenandolo con l’uranio impoverito. Poi ci arrivarono le segnalazioni dei primi casi di ex militari ammalati. Mia madre oltre a battagliare in Parlamento utilizzò il suo stipendio da senatrice per sostenere le spese sanitarie e legali e talvolta anche i funerali dei soldati a cui il ministero negava la causa di servizio.

On. Scanu, con quale stato d’animo parteciperà alla giuria di questa iniziativa?
Uno stato d’animo sbattuto, sferzato da molti sentimenti dolorosi. Un Paese civile non può permettere che regni il silenzio su responsabilità ben precise. Sono ferito e addolorato per il silenzio della politica nelle sue articolazioni parlamentari ma anche per l’analogo silenzio del mondo intellettuale e quello legato alla Chiesa. La coscienza civile di questo Paese si deve ribellare.

On. Scanu, nonostante centinaia di sentenze avverse nei tribunali e l’esito stesso della IV Commissione d’inchiesta da lei presieduta sembra che il motto del ministero della Difesa sia un sonoro “me ne frego”…
Siamo di fronte ad un cinismo di Stato che nega al popolo italiano il diritto a vedere riconosciuta una verità drammaticamente evidente e pure esplicitata dallo stesso Parlamento con i lavori e l’esito della Commissione d’inchiesta che ho presieduto.

Cosa ne pensate della retorica con cui la Nato ed il blocco euro-atlantico rilanciano la propria belligeranza in nome dei “diritti umani”, della “democrazia” e persino della “pace”?
(Fo) Questa storia dei proiettili all’uranio impoverito è un chiaro esempio della concezione che questa gente ha della “pace”, del “peace keeping” e della democrazia. Senza considerare quello che stanno facendo nei poligoni anche “a casa nostra”…

(Scanu) Questa restaurazione atlantica sembra chiudere qualsiasi spazio di ravvedimento per ciò che è stato: trent’anni di belligeranza mascherata. Ma noi abbiamo bisogno oggi più che mai di occuparci dei diritti delle persone, della tutela della salute e di quella dell’ambiente rispettando quei valori costituzionali che sono diventati stantii perché non prendono aria e sole da troppo tempo…

Ve la sentite di fare nomi e cognomi di chi ha promesso un impegno e poi l’ha disatteso o di chi si è sempre voltato dall’altra parte sulla questione uranio impoverito?
(Scanu)
Nomi e cognomi sono tanti: la Camera ha voluto e votato la IV Commissione d’inchiesta e poi ad oggi nessuno intende farsi conseguentemente carico dell’esito di quel lavoro.

(Fo) Massimo D’Alema era presidente del consiglio durante i bombardamenti su Serbia e Kosovo e lo sapevano tutti cosa fossero i proiettili all’uranio impoverito. Ne parlavamo noi, ne parlava il manifesto, persino Striscia la Notizia…E poi trovo ancora più scandalosa l’omertà sulla sorte di questi ex militari da parte della destra che però non perde occasione per esibire il suo attaccamento alle divise e ad una certa idea di “onore militare”.