C’era una volta l’Accademia, quella con la maiuscola. Oggi se n’è andato (anche lui a causa del covid-19) uno degli ultimi rappresentanti di quel mondo, Gian Mario Bravo, studioso di ineccepibile rigore, docente di enorme professionalità, osservatore critico della contemporaneità, che non esitava a scendere in campo, lontano però da ogni esibizionismo, del tutto estraneo al protagonismo di cui tanti suoi colleghi, anche assai più giovani, danno prova quotidiana.

ERA NATO NEL 1934, e la sua è stata davvero la «vita degli studi», quella a cui Gioele Solari (nell’accademia torinese, «il maestro dei maestri»), incitando il suo allievo Norberto Bobbio, proponeva come insegna di chi compiva la scelta quasi monastica dell’insegnamento universitario. Bravo, della generazione seguente ai Bobbio, ai Firpo, ai Passerin d’Entrèves, incarnò quella tradizione, nel modo più alto e nobile, ma le diede una torsione a sinistra, per così dire: già, perché in quel mondo paludato, in particolare entro i recinti della Storia delle dottrine politiche che fu il suo ambito disciplinare (e vorrei dire il suo regno), essere dichiaratamente marxisti non era facile.

SOCIALISTA DI SINISTRA, aderente poi alla scissione del Psiup, Bravo si era formato alla ferrea scuola della Ddr, dove aveva perfezionato, in biblioteche di cui non cessava di tessere le lodi, il proprio metodo, conquistando, insieme con la padronanza della lingua tedesca, un vero primato negli studi su Marx ed Engels, e allargando il cerchio, su numerosi esponenti di quella filiera. Aveva tuttavia studiato anche, con grande attenzione, sia pure in modo severamente critico, l’anarchismo, di cui riconosceva la nobiltà, e riteneva fosse necessario sottrarlo al puro ambito della militanza. È stato uno dei primi, da questo punto di vista, Bravo, a far diventare il pensiero anarchico un «oggetto accademico», senza cancellarne la pregnanza politica, naturalmente.

NON NASCOSE MAI le proprie simpatie o le proprie idiosincrasie politiche, ma da autentico homo academicus, sapeva distinguere e separare l’ideologia della scienza, da seguace di Max Weber, e teneva a bada le proprie passioni politiche, pur dichiarandole. Nessuno potrebbe dire – cosa rarissima nel mondo universitario – che Gian Mario Bravo sia stato meno che corretto in un oltre mezzo secolo di carriera, in cui egli rivestì ruoli importanti e di prestigio, che sarebbe impossibile elencare, come sarebbe impossibile restituire in poche parole la misura della passione, ma anche del rigore con le quali egli svolse quei ruoli. Dentro e fuori l’Ateneo torinese, il nome di Gian Mario Bravo significò sempre e soltanto «serietà». Fu accusato sovente di formalismo – per esempio quando in una delle fasi della sua lunghissima presidenza di Scienze Politiche, impose ai docenti di presentarsi alle sedute di laurea in giacca e cravatta, sottolineando come per le famiglie dei candidati quello era un momento solenne –, ma il suo era l’atteggiamento di chi non ha scelto l’insegnamento e lo studio come una professione, ma come una missione.

Dei suoi studi (Marx, Engels, Labriola, socialismo, marxismo, anarchismo, socialdemocrazia…) bisognerà parlare, con l’attenzione che meritano, tutti condotti su fonti di prima mano, nelle lingue originali, leggendo tutto il leggibile (e pure l’illeggibile, nel suo inguaribile perfezionismo), confrontando, valutando alla luce di una competenza che ben pochi, a livello internazionale, potevano vantare.

MA BRAVO coltivava anche uno spirito sarcastico, che esplicò con una verve che pochi si sarebbero aspettati. In una recente recensione (forse l’ultimo suo scritto) a una pessima biografia di Marx, presentato come «insignificante studioso», «profittatore», «pessimo marito e padre», con la sottolineatura come un dato fondamentale (e forse misterioso!), il fatto che nel suo soggiorno ad Algeri alla vigilia della morte, Marx si fosse fatto tagliare la barba, Bravo commentava: «meglio le forbici del barbiere che la penna di sedicenti storici».