In pieno nono secolo, il patriarca bizantino Fozio, uomo di vaste letture, riesce a mettere le mani su una copia del romanzo di Giamblico, scritto circa sette secoli prima: si tratta dei Babyloniaká, le Storie babilonesi, di cui oggi non restano che frammenti (da ritagli di poche parole a più larghi estratti). A beneficio suo e della sua cerchia erudita, Fozio offre un puntuale e per noi prezioso compte rendu dei Babyloniaká nel capitolo 94 della Biblioteca: a tratti licenzioso e spericolato, questo romanzo si segnala per le qualità dello stile e della composizione narrativa, sicché l’autore avrebbe potuto dar prova della sua abilità «anche negli argomenti più impegnativi e non solo in opere frivole e di fantasia». Pur senza indicarne il titolo – preservato, insieme a numerose citazioni, da una delle maggiori ‘enciclopedie’ bizantine, il lessico Suda (decimo secolo) – Fozio fornisce un lungo riassunto dei Babyloniaká, che ci consegna una storia su soggetto e scenario mediorientali altrimenti sconosciuta.
Qualche decennio dopo, un altro bizantino illustre, il basileus dei romei Costantino VII Porfirogenito (912-959), si farà promotore della compilazione di grandi antologie tematiche di brani scelti da autori antichi (taluni fatalmente perduti), i cui manoscritti furono fatti cercare per tutto l’impero: sono i cosiddetti Excerpta Constantiniana, nei quali è confluito pure un ampio stralcio dei Babyloniaká che consente di saggiare le capacità scrittorie del nostro romanziere.
Dopo di che, il silenzio dei secoli scenderà su Giamblico e la sua opera. I Babyloniaká si sono dunque salvati (per lacerti e spezzoni di tradizione indiretta) e al tempo stesso sono andati perduti nel cuore del Medioevo greco. Il momento cruciale di questa vicenda di conservazione e perdita si colloca all’altezza dei secoli IX-X: secoli, non a caso, di antologie, di collezioni enciclopediche, di raccolte e sistemazioni del sapere.
A questi autorevoli testimoni bizantini (insieme a un informatissimo scolio appuntato nei margini del più importante manoscritto della Biblioteca foziana) si deve tutto quel che sappiamo sul conto di Giamblico, che è poi quanto lui stesso doveva riferire, a metà tra realtà e finzione in uno schizzo autobiografico nel bel mezzo del romanzo, non tanto per senso di protagonismo quanto, è da credere, per conferire attendibilità alla narrazione. A voler dare credito a queste notizie (non del tutto congruenti fra di loro), Giamblico sarebbe vissuto sotto l’imperatore romano Antonino Pio (138-161 d.C.) e il suo successore Marco Aurelio (161-180): di origini siriache, avrebbe appreso la lingua e cultura babilonese e sarebbe stato istruito anche nel greco fino a diventare un retore (e romanziere) affermato. Fiorì dunque in un ambiente culturalmente vario e di forte osmosi tra mondo greco-romano e orientale (siriaco, mesopotamico), lo stesso che fa da sfondo al romanzo e su cui si innestano e rampollano elementi fantasiosi, casi mirabolanti, racconti esotici, episodi di magia, ossessioni erotiche e fatti truculenti.
Ambientato in terra siro-babilonese, il romanzo narra le storie irte di pericoli e sventure di una giovane coppia di sposi, Rodane e Sinonide, che tenta di sfuggire alle insidie di Garmo, re di Babilonia, invaghitosi della bella Sinonide: inseguimenti e fughe rocambolesche, inganni e colpi di scena, morti apparenti e miracolose risurrezioni, equivoci e scambi di persona, sangue che scorre copioso (e che verrà addirittura impiegato per inscrivere pietre tombali).
Chi voglia farsi un’idea di questo straordinario congegno narrativo – che chiamiamo romanzo servendoci di un felice anacronismo con cui si designano altre opere analoghe a tema erotico-avventuroso prodotte in età imperiale – potrà profittare della traduzione pubblicata nella collana «Saturnalia» delle edizioni de La Vita Felice per le cure di Roberta Sevieri (Storie babilonesi, pp. 124, € 9,50): vi troverà (quasi) tutto quel che rimane dei Babyloniaká, con note di commento – che chiariscono, anche alla luce dei frammenti trasmessi dalla Suda, alcuni passaggi troppo sbrigativamente sunteggiati da Fozio – e una bibliografia essenzialissima. Sembra dunque arridere buona fortuna a Giamblico in questi anni: nel 2015 era apparsa una nuova edizione critica di tutti gli esigui resti, tradotta e annotata da Marco Barbero (Edizioni dell’Orso), da cui la Sevieri riproduce il testo greco; nel 2016 è la volta della nuova edizione, con traduzione e note, di tutta la Biblioteca di Fozio (Edizioni della Normale di Pisa), di cui si dovrà tener conto. È merito della nuova traduttrice aver offerto al pubblico di non specialisti (rinunciando a complessi apparati e sinossi testuali che dessero conto del diseguale stato della conservazione filologica) le eterogenee reliquie di questo proteiforme long seller.