«Ovidio e Gauguin sono due grandi viaggiatori, oltre che scrittori e artisti. Si sono spostati molto e hanno entrambi scritto (Ovidio) e dipinto (Gauguin) mentre attraversavano luoghi diversi. Il fascino che sprigionano per me risiede tutto in una domanda: come si può creare fuori dalla propria casa e in movimento?».
Anche lei, Jacqueline Bishop, è nata a Kingston, in Giamaica ma poi si è trasferita in America, divenendo una intellettuale della diaspora. Poeta, fotografa, pittrice e cineasta, ha fondato Calabash: A Journal of Caribbean Arts and Letters, una rivista che nei suoi dieci anni di pubblicazioni ha riconsegnato una voce potente a pensatori e artisti caraibici (non a caso, comprendeva nel suo comitato scientifico scrittori come George Lamming).
Bishop sarà ospite al festival Incroci di civiltà a Venezia, venerdì 5 aprile (ore 9,30, Auditorium Santa Margherita) dove leggerà alcune sue poesie insieme alla studiosa di letteratura caraibica, Michela Calderaro. «Sarà un reading bilingue, io in inglese e lei in italiano. La traduzione delle poesie è stata affidata a Federica Messulam, che ha fatto un gran lavoro: sebbene io non parli o scriva in italiano, le mie orecchie hanno riconosciuto un suono musicale. Leggerò brani dalle due raccolte Fauna (Peepal Tree Press, 2006) e Snapshots from Istanbul (Peepal Tree Press, 2009), oltre ad alcuni versi ancora inediti».

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«Writers Who Paint Painters Who Write: 3 Jamaican Artists» – il titolo di un suo libro – potrebbe essere anche quello della sua biografia, considerato l’interesse nel coniugare la parola scritta e l’immagine. Significativo al riguardo sembra essere poi «The Tempest Poems», è così?
In The Tempest Poems compio incursioni tra i personaggi shakespeariani dell’opera omonima, però da una prospettiva giamaicana. È un lavoro indicativo se si prende in esame il mio doppio sguardo di scrittrice e artista visuale. In quei versi e disegni ho intrecciato entrambe le forme d’arte al servizio di un unico corpo. Non l’avevo mai fatto prima. Per molto tempo, ho negato la mia vocazione di artista, mi sentivo un’intrusa nel campo visivo. Per anni, ho realizzato opere esclusivamente per me stessa, concedendomi solo la scrittura come mestiere. Ho iniziato con la poesia e la finzione ha sempre bussato alla mia porta. Nascondevo la mia identità di artista, ma sapevo che premeva per uscire. Gli scrittori usano le parole per creare immagini, è un processo dalla magia infinita. Ma ci sono momenti in cui le immagini hanno la necessità di esprimersi da sole.

Lei ha detto che la sua Giamaica è reale e non è un sogno. «Avendo vissuto a lungo fuori dalla mia città natale, sono sia una insider che una outsider». Può spiegare ulteriormente questo concetto?
Da diversi mesi vivo a Londra per un dottorato in Storia dell’arte. Da questa distanza, è l’America che stranamente può apparire come un sogno, eppure è il posto in cui ho vissuto gran parte della mia esistenza. Così, si può comprendere perché un paese che ho lasciato da adolescente – nonostante io torni con frequenza – si riveli simile a un luogo onirico da innumerevoli distanze. Anni fa, ho scritto nel mio diario che quando viaggiamo, anche se facciamo nuove esperienze, portiamo il bagaglio delle altre con noi. Di conseguenza, mi sento come se fossi sempre in armonia. Posso ritrovare, ad esempio, nei dolci britannici qualcosa di quelli giamaicani, ma non è facile che io focalizzi pure l’attenzione sulle differenze. A Londra sono sia una insider che una estranea nei confronti della cultura inglese. Quando arrivo in Giamaica, mi sento a casa, esattamente come negli Stati uniti. In Giamaica ciò che più amo sono il cibo, la musica, il clima, la famiglia e gli amici… dopo poco tempo, però, comincia a mancarmi il comfort dell’appartamento di New York. Quindi, la Giamaica rappresenta per me un passato realmente vissuto e un luogo – altrettanto reale – che si dirama nel presente. Un discorso profondamente vero anche per l’America.

Quali sono le «Childhood Memories» – per citare il titolo della serie di sue fotografie – che hanno influenzato la sua scrittura e arte?
Certamente crescere con mia nonna e trascorrere l’estate nel piccolo distretto di Nonsuch con i miei bisnonni sono state esperienze incredibilmente istruttive. È come se tornassi sempre a condividere quelle antiche esperienze. È stato fondamentale, poi, osservare mia madre impegnata nel suo attivismo politico a favore di una Giamaica moderna e migliore. Lei è stata un membro autorevole del Partito Nazionale del Popolo. Non trascurerei di citare anche gli anni che ho passato alla Holy Childhood High School, una scuola per ragazze cattoliche a Kingston: ha segnato non tanto la mia produzione creativa quanto le relazioni che ho stretto e che hanno resistito nel corso del tempo.

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Potrebbe dirci qualcosa sulla tua ultima mostra «By the Rivers of Babylon» e il suo rapporto con le tradizioni caraibiche?
I dipinti di The Rivers of Babylon raffigurano Babilonia come luogo di prigionia e oppressione, mentre Sion simboleggia un territorio utopico, di unità e pace. Nella serie Babylon & Zion, uso i testi delle canzoni di celebri cantanti rastafarian per creare pitture a goccia, basate su una trama di scrittura in cui cerco di dar voce a chi non ce l’ha e di raccontare la storia non detta, una ricerca che ha sempre definito li mio lavoro. I bordi grondanti della calligrafia aggiungono una tattilità pittorica, mentre il movimento e la distorsione del testo suggeriscono turbolenze. Nell’ultima esposizione – che vorrei portare in Europa – le immagini sono state abbinate alle opere Dudus e Landscapes: Jamaica. Dudus è una serie ispirata agli eventi che circondarono la cattura del signore della droga giamaicano, Christopher ’Dudus’ Coke, e alla richiesta di estradizione negli Stati Uniti. Celebrato sia come leader della comunità che come eroe-malvagio, Dudus è oggetto di culto per alcuni giamaicani, c’è chi lo protegge e chi lo insulta: arduo comunque dimenticare la sua presenza. Per questi dipinti, ho inquadrato quel periodo di fermenti utilizzando immagini tratte dalle copertine dei quotidiani che raccontavano di Dudus, nonché mappe di vari luoghi. Una stratificazione di colori allude a una narrazione ben più ampia che comprende il commercio transatlantico degli schiavi e le loro successive migrazioni. Alla fine, il ciclo interroga le strutture del potere e i limiti della nostra mobilità, inseriti nel tessuto sociale di uno stato- insulare.
Gli ovali in miniatura di Landscapes: Jamaica potrebbero essere letti come un contrappunto giocoso all’aggressività della serie Dudus, ma molti di questi «paesaggi» luminosi e colorati sono stati realizzati insieme a quegli stessi dipinti. Ero in Francia e ho preso immagini trovate in rete mentre cercavo informazioni su ciò che stava accadendo in Giamaica. C’è un conflitto intrinseco in queste costruzioni presentate come fossero dolci vignette e idilliache visioni turistiche.