«Le cose hanno radici e rami: gli affari hanno fini e principi; riconoscere quel che precede e quel che segue, vi avvicinerà alla conoscenza del processo»: sono parole di Confucio nel Ta Hsio. Studio integrale, pubblicato a Rapallo nel 1942 nella traduzione di Ezra Pound. Come dalle radici non «torbide» spuntano rami sani, così dai risultati del buon agire si costruisce l’ordine della vita, si assume la consapevolezza dell’intero suo andamento, fino a cogliere il «processo» plasmante la dimensione di ciò che precede e di ciò che ne conseguirà in futuro.
La traduzione del classico confuciano, prima in italiano e solo più tardi in inglese, nell’inferno di Pisa, fu per Pound un fermo impegno, un obiettivo inderogabile da somministrare agli Italiani in tempo di guerra, in quanto egli riconosceva nei due libri del Saggio cinese un pensiero consonante alla sua filosofia, che riteneva un dono da trasmettere ad altri, perché ne prevedeva la durabilità: «Si legge una frase di Confucio e può sembrare niente. Vent’anni dopo si ritorna a meditarne la portata». Di suo aggiungeva: «tutto ciò che il critico può fare per il lettore, o lo spettatore, è di mettere a fuoco la sua vista o il suo udito».
A sua volta, Gianni Dessì – artista «concettuale» di non semplice godibilità senza il suo passato di letture – trova nell’epigramma sul «processo» l’incontro poetico tra due polarità: quella della memoria dell’artista e quella dello spazio scrittorio, pensante e visionario del poeta. Tutti i suoi dipinti ne risentono come di un’eredità che lo indurrà a un confronto con sé stesso, con i suoi riflessi diacronici, a iniziare dal primo, Riflessi, un disegno su carta del 1978.
Ma l’oggetto di cui qui si vuole parlare è la scultura Ezra Pound, un monumento di enormi proporzioni (cm. 251×133 x 115), in fibra di agave e pigmento su struttura di legno e rete metallica. L’opera, raffigurante il busto del poeta in età avanzata, è del 2010 e si intitola tu x tu. Fu esposta a Bolzano, presso la Exibart, la galleria di Antonella Cattani, con un’epigrafe dell’autore al catalogo: «Sono quel che sono (parafrasando il titolo di un mio disegno di quando avevo ventitré anni e qualche certezza) anche grazie a Pound. Ora, nella mia passata età di mezzo, riguardo con un misto di tenerezza e gratitudine l’artista giovane e quello vecchio, a cui questa mostra vuole rendere sentito omaggio».
In quell’occasione il profilo gigantesco di Pound era posto in contrappunto con Giallo mio, un olio su tela, un autoritratto post-informale di Dessì (nient’altro che «giallo» su tutta la tela), il quale si specchia nelle, o, confucianamente, dialoga con le, parole del Maestro. Il giallo per Dessì è «colore che sollecita tutto. È il materializzarsi di una visione che s’avvicina all’accadimento», la «visione» in atto, realizzando l’artista in questo modo il sovversivo insegnamento dell’ideogramma, una scrittura che egli considera «la porta delle immagini multiple, dell’accostamento fantastico e analogico». D’altro canto, in una Nota introduttiva al suo Studio integrale, Pound insisteva nel dire che la scrittura ideogrammatica è una «stenografia di quadri», un sistema di disegni «abbreviati», innalzati «a funzione ideologica».
Mary de Rachewiltz, che era presente alla mostra e contributrice al catalogo con uno scritto breve e frammentato, giocato su una nuova luce sui Cantos gettata da Dessì, e un nuovo palinsesto, vide il volto del padre come «una ricomposizione ilare un tempo, ora maturo e pensoso». Così era l’ultimo Pound.
Da giovane, l’ideogramma lo aiutò a scoprire la struttura dell’«immagine», come suggerita dai geroglifici composti da più segni/segno. Secondo lui, il sinologo americano Ernest Fenollosa, del quale ereditò le «carte» nel 1914, «cercò di farci capire che un solo ideogramma può presentarci: un occhio che guarda diritto nel cuore, nel cuore guardato, e l’azione del guardare». Si pensi quindi all’idea nuova dell’«immagine» come «apparizione» (non un’epifania joyciana), che Pound deduce, trasformandola, a fondamento del rivoluzionario Imagismo, in un’illuminazione fugace («in un istante di tempo»), in cui la realtà si presenta nella sua essenzialità, la sua bellezza. Ne è un esempio l’haiku del 1912: «Questi volti apparsi tra la folla / Petali su un ramo umido e nero». Come sarà nell’interpretazione di Dessì, la focalizzazione del poeta sulla non gradevole metropolitana parigina (una nekuia) è sul volto (l’io, il ‘cuore’: l’essenza) trasfigurato in petali generati da un ramo. Da queste letture sortisce il graduale superamento da parte di Dessì del rispetto delle modalità dell’arte informale, apprese da Toti Scialoja, l’altro suo maestro.
Non so se Dessì con il suo maestoso monumento abbia voluto misurarsi con l’altrettanto maestoso ritratto «vorticista», anch’esso governato dalla forza e grazia dell’ideogramma, eseguito da Gaudier-Brezska nel 1914: una kinesis che si stabilizza in una stasis, disse Pound nel 1914, sebbene l’allora monumentale Gaudier fosse scolpito da un grande pezzo di marmo (90,5×48,9) dotato di qualcosa di «ieratico», che conferiva alla pietra grezza una potenzialità superiore. Il Gaudier, ora in Texas, seguì Pound nelle sue svariate residenze europee. Non se ne staccava mai. Oggi se ne può vedere un calco a Brunnenburg, la residenza della figlia Mary, e un altro alla Fondazione Cini di Venezia.
Certo è che le proporzioni di entrambi – quello di Dessì e il Gaudier – fanno a gara a inseguirsi. E il Dessì non manca anch’esso, pur in un materiale così diverso, di quella ieraticità, che Pound riconosceva nella pietra grezza di Gaudier. Se quest’ultimo è arrivato in Texas, il Dessì è andato invece in Cina, acquistato dallo scomparso magnate George Wong per far parte della sua collezione a Pechino, Parkview Green, cosa che all’autore – diversamente che per il Gaudier – pare il «suo naturale approdo». I due ritratti, entrambi ispirati e mossi dalla sensibilità dell’ideogramma (Gaudier masticava bene il cinese), si rispecchiano da lontano in un two x two, riflettendo le diacronie e il Giallo mio di Dessì sul poeta che ama, colui che più di altri gli ha dato dirittura e strumenti, e del quale condivide la humanitas.
Di recente a Roma si è avuta l’opportunità di incontrare Dessì appena tornato da Pechino, in occasione dell’inaugurazione di una sua mostra alla Libro/galleria Diagonale in via dei Chiavari. Lo Studio integrale di Confucio, con il testo cinese e la traduzione di Pound, è stampato nel catalogo, dedicato a George Wong. Si è avuto, dunque, il momento giusto per studiare nelle opere esposte l’impronta lasciata dall’ideogramma, un’impronta che è solo un «frammento di esistenza». Ventuno disegni in inchiostro di china su carta cinese, due oli su tela, una scultura in ceramica andavano a comporre lo spazio ristretto che li ospitava.
Pound è stato, dunque, il traghettatore del passaggio di Dessì a Pechino, a contatto con una scrittura che lo affascina. Pur restando ferma sul piedistallo informale di partenza, la sua trasferta si nota soprattutto nelle chine. In altre opere appare una densità di colore nei rimanenti vuoti, con accennati sgocciolamenti in giallo e celeste-cielo (colore confuciano), in cui c’è da leggere di tutto, anche apparizioni nascoste, opache metamorfosi (la leonardiana pareidolia, Vexierbilder?). Sulla quarta di copertina del catalogo ci congeda Vox, olio su tela, dove netto si staglia un volto maschile, un volto che parla, perché la bocca è segnalata da una luce gialla: il giallo dovrebbe essere la «parola».
Il busto di Confucio lo abbiamo ritrovato in una sorta di alcova sacrale della Diagonale, rappresentato in una scultura in ceramica raku grigio-nera con spruzzature gialle, segnata frontalmente da un rettangolo verticale nero. Tale segno, spalmato su tutto il profilo, vuole significare la dinamica dell’interiorità che si proietta all’esterno. Dessì se ne serve spesso. È un suo mezzo di comunicazione, vòlto – chissà – a condensare il «processo».
La visione che lo spettatore riceve obbliga al silenzio sullo sfondo della tacita eco delle parole del Saggio. Anche qui Dessì ha creato una delle sue camerae pictae, e soprattutto ha realizzato un dialogo e un confronto con i suoi interlocutori. Ma in questo passaggio di riflessi multipli, rimandanti ai suoi faccia a faccia in una discendenza di «rami» non «torbidi», bisogna riconoscere la profondità della disciplina, l’umiltà, l’estro e i numerosi rispecchiamenti in bianco e in giallo e nero. Nel suo palinsesto di luce, egli cerca la realizzazione della visione, invitando lo spettatore all’arte del vedere, servendosi del mot giuste del processo in salita, come insegnava Pound: «arrampicarsi un poco/ prima di spiccare il volo,/ ‘ri-vedere’,/ il verbo è ‘vedere’, non ‘tirare oltre’» (Canto 117), e contemplare lo splendore della propria missione di artista impegnato verso il coriaceo dell’esterno, per essere uno svelatore di obiettivi vitali non torbidi, ramificati e in atto.
Giallo come un ideogramma cinese
L'immagine del poeta: Dessì/Pound. L’ideogramma aveva condotto Ezra Pound a scoprire la struttura dell’immagine quale «apparizione»: la testa di Gianni Dessì è un ciclopico commento a quella scoperta
L'immagine del poeta: Dessì/Pound. L’ideogramma aveva condotto Ezra Pound a scoprire la struttura dell’immagine quale «apparizione»: la testa di Gianni Dessì è un ciclopico commento a quella scoperta
Pubblicato 5 anni faEdizione del 11 agosto 2019
Pubblicato 5 anni faEdizione del 11 agosto 2019