Non aveva molti soldi per pagarsi i modelli e così, per i suoi esercizi sul colore e per affinare le abilità tecniche, sceglieva i fiori. La malvarosa certo, ma soprattutto i girasoli, che alla fine dell’Ottocento erano ancora circondati da un’aura esotica e venivano coltivati nelle zone rurali e nei giardini di Montmartre per la loro bellezza quasi carnale e la carica gioiosa che sprigionavano con la loro cromia accecante.
Vincent Van Gogh racconta al fratello Theo, e anche alla sorella Wil, il suo piacere di sperimentare le infinite possibilità della tavolozza naturale semplicemente seguendo il ciclo di vita dei fiori. Soggetti «poveri» eppure dalla simbologia ricchissima, che lui – sempre inquieto nella sua instancabile ricerca – non dipingeva mai in un’unica prospettiva, ma ritraeva nel loro sboccio e nel loro appassire, come se narrasse una storia universale. Inseriva la dimensione temporale nel quadro, trasformandolo in un sigillato scrigno dell’effimero.

DEI PIGMENTI SCURI e degli impasti fuligginosi, avvolti nell’ombra, con cui immortalava i suoi contadini e minatori si era liberato ben presto per aprirsi ai colori brillanti: era stato sufficiente andare a Parigi e lì conoscere gli Impressionisti, Monet e Renoir soprattutto, di cui ammirava proprio le composizioni di nature morte, quelle si disfacevano nell’atmosfera e si riassemblavano al solo mutare della luce. A differenza loro, si intestardiva sui contrasti, sulla scoperta dei «toni spezzati» per armonizzare gli estremi.
Van Gogh – I girasoli è il docufilm di David Bickerstaff (con Jamie de Courcey, distribuito da Adler Entertainment) che sarà proiettato al cinema per tre giorni, a partire da lunedì 17 e fino al 19. Non è un biopic, è una storia che prende le mosse dalla mostra del Van Gogh Museum di Amsterdam che presentò cinque versioni dei tanti girasoli dell’artista, studiandone differenze e somiglianze, ripercorrendone origini e distruzioni. Una delle versioni – che era stata acquistata da un collezionista giapponese negli anni Venti del Novecento – finì infatti bruciata nei bombardamenti della seconda guerra mondiale.
«Voglio decorare il mio appartamento solo con girasoli», scrive alla sorella un Vincent emigrato al sud, ad Arles, in cerca di sole, aria e libertà. Lo fa dalla sua stanza gialla con le mattonelle rosse e intanto si concentra su quel colore caldo, sulle variazioni che vanno dal limone al brunire del tramonto. Insisteva su quel soggetto anche fuori stagione, a novembre o in un freddo gennaio. Per lui, era un’ossessione dagli effetti benefici.

I girasoli del museo di Amsterdam

SARANNO ANCORA i girasoli (che erano giunti in Europa dalle Americhe soltanto dopo il 1492 e che ancora nel XIX secolo non erano utilizzati per ricavarne l’olio dai semi) a fare da sottofondo alla drammatica lite con l’amico Paul Gauguin («una creatura autentica, con l’istinto di bestia selvatica. In lui sesso e sangue prevalgono sull’ambizione»). Dopo l’epilogo tragico del taglio dell’orecchio di Van Gogh e del suo ricovero psichiatrico, da lontano, Gauguin chiederà all’ex sodale proprio un dipinto con i girasoli. Vincent ne farà una copia, pratica a cui spesso ricorreva – fondando l’arte sul suo stesso linguaggio e non sulla realtà – quando non aveva un «modello» da osservare.

È TORMENTATO dall’insonnia, debilitato dalle crisi nervose, con le allucinazioni che popolano le sue notti, eppure non smette di tuffare i suoi pennelli dentro al giallo pastoso per far rivivere i suoi girasoli. Userà così la sua parte di tela di juta di dieci metri che aveva diviso con Gauguin, seminando folti mazzi di quel fiore in vasi dalle forme giapponesi.
Nel film, agli storici dell’arte si alternano i botanici: raccontano l’esuberante storia dell’helianthus, che i nativi americani usavano sia per il loro sostentamento che per produrre coloranti. E proteggevano la specie floreale, in virtù delle sue proprietà terapeutiche.