Fore non sarà il ministro Alfano ma lo stesso Enrico Letta, che ieri ha annunciato un’indagine interna, a spiegare nei prossimi giorni la versione ufficiale sull’espulsione di Alma Shalabayeva Ablyazov e di sua figlia Alua di 6 anni, avvenuta in tutta fretta il 31 maggio scorso. Quel giorno le autorità italiane, che le avevano fatte prelevare dalla loro abitazione romana due giorni prima, lasciarono che fossero caricate su un aereo privato, probabilmente fornito dal Kazakistan e diretto ad Astana, la capitale. Alma aveva fatto richiesta di asilo. La risposta: «Troppo tardi».

Vicenda intricata – una sorta di rendition della quale Bruxelles starebbe per chiedere conto all’Italia – e non solo sotto il profilo del diritto, cui una pilatesca tesi affidata da fonti del Viminale all’Ansa martedì sera – «…la sola assenza sul documento di timbri o visti di ingresso legittimava l’espulsione…» – ha tentato di dare un’imbarazzata risposta. Dietro alla pasticciata espulsione spunta ben altro: intrecci kazako-italiani, rapporti tra il presidente-dittatore Nazarbaiev e il suo attivo entorurage affaristico con l’Eni, il colosso energetico italiano che in Kazakistan ha molti interessi. Ci sono infatti più elementi che riconducono al colosso a sei zampe e a un intreccio oscuro di affari, tangenti, pressioni la vicenda Ablyazov – marito di Alma e sorta di Khodorkowsy kazako – milionario e oppositore fuggito all’estero perché accusato di frode. Un sistema al centro delle inchieste della procura di Milano – con due fascicoli aperti e un processo seguiti dal pubblico ministero Fabio De Pasquale – che coinvolgono il gigante controllato dallo Stato e quinto gruppo petrolifero mondiale. Negli atti si legge che l’indagine riguarda un «gruppo affaristico», formato da «dirigenti del gruppo Eni e faccendieri», il cui scopo è «influire illecitamente nell’aggiudicazione di gare d’appalto» in Iraq, Kuwait e per l’appunto in Kazakistan, terra di Nazarbaiev e Ablyazov. Letta chiarirà questi punti o si soffermerà sui dettagli tecnici del passaporto di Alma?

Già a metà giugno un’interrogazione 5stelle sulla presunta corruzione internazionale, aveva chiesto le dimissioni dell’Ad del gruppo Paolo Scaroni. Il governo aveva risposto col viceministro Stefano Fassina secondo cui l’esecutivo «non è al corrente delle attività gestionali» dell’Eni, nonostante il 30 per cento delle quote sia in mano al Tesoro.

Accanto all’inchiesta italiana ci sono anche le preoccupazioni degli Stati uniti emerse nei cable di Wikileaks. Anche qui spunta l’Eni e fa capolino Ablyazov. Un cable «confidenziale», scritto il 29 gennaio 2010 da Pamela Spratlen, l’allora ambasciatrice Usa ad Astana, riferisce di un suo colloquio con Dan Houser, vice presidente per Europa e Asia centrale della McDermott, compagnia statunitense attiva nel settore energetico dal 1923 che si occupa della costruzione di piattaforme off-shore. Per Houser il primo problema incontrato dalla sua società in Kazakistan è stato «identificare la struttura proprietaria di partner e concorrenti», perché in «assenza di trasparenza» è «difficile capire chi possiede cosa». Houser spiega che «tutti i concorrenti della McDermott che operano nella regione hanno potenti sponsor politici ed efficaci lobbisti. Ad esempio, l’italiana Saipem e il Lancaster Group – presieduto da Nurlan Kapparov, ex vice ministro dell’Energia e delle Risorse minerali, già numero uno della Kazakh Oil, poi diventata KazMunaiGas (ex Kmg) – hanno creato la joint-venture Ersai».

Houser rivela poi che «quando l’italiana Eni è diventata il principale operatore del progetto Kashagan», giacimento di gas naturale su cui ora indaga la magistratura di Milano, «per gli appaltatori statunitensi è stato difficile ricevere un trattamento onesto», a causa «dell’arrivo della società di servizi petroliferi Saipem, controllata al 40% da Eni». L’ultimo aspetto interessante della conversazione tra l’ex ambasciatrice Usa ad Astana e il vice presidente della McDermott, riguarda proprio la rinegoziazione del contratti. In Kazakistan, secondo Houser, non sarebbe il governo locale a chiedere le modifiche, come avvenuto in Iraq, ma «le compagnie estere, che cercano di rinegoziare un accordo quando si rendono conto di avere fatto una promessa che non sono in grado di mantenere».

Il 27 gennaio, due giorni prima dell’invio del cablogramma, Mukhtar Ablyazov, marito di Alma, oppositore politico ed ex presidente della Banca TuranAlem (Bta), la terza del Kazakistan, si dà alla macchia. La cosa non sfugge agli americani: «Ha lasciato il Paese dopo essere stato accusato di appropriazione indebita e frode finanziaria», continua il cable riservato. Per l’accusa avrebbe sottratto alla Bta miliardi di dollari, che sarebbero il frutto «dell’illecita cessione del 25% della compagnia AktobeMunaiGas nelle mani dello Stato alla China National Petroleum. Il tutto a un prezzo di molto inferiore rispetto al valore di mercato».

La domanda legittima cui si dovrebbe rispondere è se dietro alla rapidissima consegna di Alma ai kazaki non vi siano state pressioni dirette o indirette dell’Eni e se non si tratti di uno scambio di favori per ingraziarsi Nazarbaiev e il suo entourage per mettere le mani sul tesoro energetico kazako. Un dubbio che sarebbe opportuno chiarire senza reticenze come per altro ha detto Letta ieri in parlamento: «Interrogativi da sciogliere in un’indagine interna in cui non saranno tollerate ombre e dubbi». Il primo ovviamente riguarda l’espulsione di una donna e di una minorenne a rischio nel Paese di destinazione.