Giada Colagrande, da anni, è detta dagli amici Giadina, per via della corporatura minuta. In quel diminutivo c’è tutta la sua forza. Dagli anni Novanta (da quando la conosco) ha una ostinazione negli occhi che l’ha portata a girare il mondo, a realizzare i suoi desideri, a trovare l’amore. Oggi è una donna sofisticata e stratificata, come un serpente dalle molte pelli, una quercia da conoscere ad ogni cerchio, ad ogni strato una storia, ad ogni foglia una nuova dimensione.

Qualche volta nella vita ci sono degli istanti in cui spostare un unico tassello nella scacchiera modifica l’intera nostra esistenza. È raro percepirli, è difficile viverli, è curioso ricordarli. Quanti momenti di passaggio hai vissuto nel tuo percorso?
Ho vissuto molti momenti di passaggio. Fino ai miei vent’anni in maniera inconsapevole lasciandomi guidare dai miei genitori, soprattutto da mia madre. Sono nata in Abruzzo, poi sono andata in un collegio italiano a Losanna. Dalla Svizzera all’Australia dove ho fatto l’exchange student in quarta liceo: un cambiamento epocale che mi ha aperto un altro mondo che non conoscevo. Ho fatto l’università Roma, dopodiché sono andata a New York. Ad un certo punto mi sono resa conto che le responsabilità stavano a me piuttosto che a mia madre. Ho capito che mi lasciavo, e tutt’ora, mi lascio molto guidare. Cerco sempre di essere all’erta, cerco di ascoltare, cogliere, vedere, percepire i segnali che arrivano dall’alto, da altrove, da altro da me.

Penso alla Abramovic, che tu conosci bene avendo girato il documentario «Bob Wilson’s Life & Death of Marina Abramovic», una delle donne più forti viventi che opera nell’arte contemporanea: la sua vita sembra costellata di passi decisivi, ogni scelta un incontro, ogni passaggio una svolta. Quali sono stati gli incontri determinanti della tua vita?
Il primo incontro determinante della mia vita è stato quello con mia nonna materna: a capo della nostra famiglia matriarcale, mi ha dato una impronta molto forte sull’identità femminile. Era una donna indipendente, autoritaria, potente: è stata il mio primo punto di riferimento. Non è un caso che Marina Abramovic sia diventata così importante nella mia vita: da artista, a differenza di mia madre e di mia nonna, mi ha trasmesso cose diverse. Mi ha donato una comprensione riguardo il femmineo nell’arte, nella creazione, nell’espressione artistica. Amo il fatto che lei usi l’arte anche come percorso spirituale. Poi in collegio c’è stato Domenico, che oltre a essere il direttore dell’istituto è stato il mio insegnante di storia dell’arte, colui che mi ha fatto scoprire l’arte contemporanea come oggetto di studio. Durante l’infanzia c’è stato Ettore Spalletti: lo vedevo che passava giornate intere a preparare colori e pensavo che bello fare l’artista se significa che anche da adulto continui a giocare tutto il giorno! Un’altra figura fondamentale da adulta – l’incontro è avvenuto dieci anni fa – è stato Franco Battiato, che ritengo il mio maestro, per quanto riguarda il coronamento della mia ricerca, che si è definita grazie alla sua guida, che è una ricerca sia artistica che spirituale.

Nei «turning point» quanto è pericoloso e decisivo sbagliare? Quanto è difficile poi vivere nel rimpianto?
Le mie riflessioni sul rimpianto si sono molto intensificate negli ultimi anni, dalla morte di mio padre. Con lui ho avuto un rapporto difficilissimo: quando ha cominciato a stare male e poi sempre peggio, ho dovuto fare un grosso lavoro su di me, perché mi era chiaro che ero a rischio rimpianti, di quelli che non ti levi più finché campi, nel momento in cui sarebbe morto. Dopo la sua morte ho dato più valore a ciò che ritengo più importante nella vita, ovvero l’amore. Credo nella reincarnazione perciò penso che se ci incarniamo in questi corpi con questi genitori in queste circostanze nulla accade per caso, credo che ci sia un percorso evolutivo che possiamo o non possiamo percorrere. La cosa che lo guida è l’amore perché, come canta Battiato, «il giorno della fine non ti servirà l’inglese»: l’unica cosa che veramente conta e che resta, quando le persone care muoiono, è l’amore che tu hai provato per loro e quello che loro hanno provato per te. E quello è un fatto più di qualunque cosa fisica. L’amore è l’unica cosa che tiene lontano il rimpianto.

La creatività, in parte, nasce in momenti così transitori, effimeri, impalpabili: la prima idea di un film o di un libro, un verso poetico, l’espressione giusta per una battuta a teatro. Come nascono i tuoi film?
I miei film sono molto poco premeditati, direi praticamente zero. Per esempio Padre, il mio ultimo lavoro, è nato da dei sogni, che sono stati stimolati da una conversazione con la mia amica Gaia. Dopo una proiezione di Aprimi il cuore (2002), il mio primo film, al Festival di Roma all’interno di una rassegna, io e alcune persone che avevano partecipato al film siamo andati a vederlo. Al ritorno ci fermiamo a chiacchierare fino a tardi e Gaia mi fa una testa così su quanto era importante che io rifacessi un film come Aprimi il cuore, cioè «fatto in casa», completamente senza soldi, senza una vera produzione, senza neanche una vera troupe. Le dico che mi piacerebbe tantissimo. Vado a dormire e faccio un sogno, la notte successiva faccio la continuazione del primo e capisco che sto facendo, per la prima volta in vita mia, dei sogni consecutivi – e che sto sognando un film. Da questi sogni, che mi sono scritta e ho rimesso in forma di sceneggiatura perché chiaramente non avevano una linearità narrativa – avevano un sacco di buchi – è nato Padre. Comunque devo dire che, dall’istante in cui ho capito che volevo fare cinema, ho pensato che il video fosse il mezzo più potente per comunicare ciò che immaginiamo o sogniamo (la folgorazione è avvenuta ad una mostra di Bill Viola a Losanna – avevo diciassette anni – dove mi aveva portato Domenico, il mio insegnate di storia dell’arte, davanti al Nantes Tripctych in cui c’è una madre che muore, una moglie che partorisce e un uomo sospeso).

Penso al mito di Orfeo e Euridice. Lei è morta, lui la va nell’Ade, regno dei morti. Dopo canti disperati gli viene concesso di ricondurre Euridice nel regno dei vivi a condizione che durante il viaggio verso la terra la preceda e non si volti a guardarla fino a quando non giungessero alla luce del sole. Ma Orfeo non resiste, dubita di tenere per mano la vera Euridice, pensa possa essere un’ombra, si gira e la vede morire per la seconda volta sotto i suoi occhi. Ti volteresti o troveresti la forza di non farlo pur di mantenere vivo l’amore? Da donna forte quale sei, come guardi indietro al tuo passato?
Cerco, per mia natura, di vivere al meglio il presente. Non a caso poi mi sono ritrovata in una serie di insegnamenti, specie quelli buddisti, in cui questo ha un valore fondamentale, il vivere il presente. Sto scoprendo che il passato può essere vissuto anche in maniera più positiva, non in forma di rimpianto, che può essere un luogo da visitare, il luogo della memoria, da visitare per nutrirsi di ciò che non si ha più. Grazie alla ipnosi regressiva ho scoperto ultimamente che noi conteniamo completamente tutto. Mi sono resa conto di avere un ricchezza pazzesca, per cui adesso, quando mi manca mia nonna cerco di andare a delle memorie comuni e le vivo in una maniera completamente diversa, perché rievoco il passato sfruttandolo come un’occasione per stare con lei, per nutrirmi del suo amore. Questo cambia completamente la percezione della memoria e il rapporto che hai con essa.