Il tredicesimo quaderno delle Edizioni di Solaria fu stampato in «edizione originale» di duecento copie numerate a Firenze, nel giugno del 1929. Accoglieva i Saggi critici. (Serie prima) di Giacomo Debenedetti. Scritti composti tra il 1922 e il 1927, tra i ventuno e i ventisei anni dell’autore. Studi dedicati a Croce, a Michelstaedter, a Radiguet e Cocteau. E, memorabili, a Saba e a Proust. A Lionello Venturi e, col titolo Critica ed autobiografia, a Francesco De Sanctis. Scrive Debenedetti: «Questa raccolta voleva intitolarsi: Fuga dalla Gioventù. Poi si è rassegnata ad un titolo più generico ed ovvio».

Così l’inizio della Prefazione, dopo l’esergo tratto da Tribulat Bonhomet di Philippe Villiers de l’Isle Adam: «Dans le monde, je dissimule cette émotion par bon ton». Dissimulare nella mondana convenzione delle buone maniere l’emozione che mi colpisce. E allora la scrittura critica come bon ton, se rendo nei miei saggi conto d’un’emozione. Di questa emozione (cette émotion) che mi tocca e, nel contatto con il testo (il testo che leggo, che ascolto, che osservo) mi attraversa. Tale, diresti, l’indicazione che rivolge al lettore Debenedetti facendo ricorso al motto di Villiers de l’Isle Adam. Avverte Debenedetti il lettore «che riunendo in volume queste operette critiche, tali e quali furono scritte, con la loro data accanto, dai primi tentativi ai più recenti, ho voluto soltanto ricapitolare il mio lavoro di alcuni anni, nelle sue direzioni e nei suoi eventuali risultati».

Dunque il «titolo più generico ed ovvio» di Saggi critici. Perché, continua la Prefazione, «Fuga dalla Gioventù, poteva sembrare che nascondesse dei sottintesi». Certo. Tra gli altri, un primo sottinteso parrebbe racchiuso proprio in quella gi maiuscola di Gioventù. Sottintendeva il conferimento, a quella età, d’una forma o di un assunto categoriale? O era l’indizio del voler consolidare entro termini assoluti e fissare in un connotato definito un arco del tempo della vita, circoscritto tanto da poterne misurare una distanza, e allontanarsi? Andarsene. Anzi fuggire. Fuggire: portarsi rapidamente altrove, raggiungere di buon passo un ‘altro luogo’? Ma, a ben vedere, indagando i sottintesi nascosti, si scopre che non nel fuggire e nell’andar via, ma piuttosto nella situazione propria della fuga stavano invece riposti un senso e una dimensione congeniali. Anche Fuga, allora, va contrassegnata da un’effe maiuscola. Fuga come forma, quale la si intende, ad esempio, in musica. Tanto da sentirsi autorizzati a sciogliere quel “fuga dalla gioventù” non come un movimento da luogo, ma come un qualificativo che reca al termine fuga, un suo particolare attributo. Intendo dire la configurazione di un tipo specifico di fuga, nella fattispecie quello che compete e riguarda, appartiene e concerne la gioventù.

Del resto, in musica, la fuga prima espone, poi svolge e infine concentra e stringe un tema. Ma lo ottiene nella moltiplicazione contrappuntistica di ‘temi’ e di ‘soggetti’, per proliferazioni articolate in controsoggetti e divertimenti e riesposizionie e code. Forse, e pertanto, Debenedetti, dopo aver precisato che «in quella Fuga dalla Gioventù non c’erano fastidiose allusioni patetiche o sentimentali», può affermare che «ciascuno di questi scritti fu davvero una tappa di quella fuga». Tappa, dove il movimento della fuga si risolve in sosta, un permanere che consente di esaminare il puntuale (e attentamente, volta a volta scelto) circostante contesto. Un attorno da sceverare, da saggiare criticamente.

La tappa come momento privilegiato di nuove correlazioni, dimora che consente la formulazione di articolati ragguagli. Là dove si conseguono i risultati e i costrutti di ogni incontro consapevole (critico) con l’opera e l’autore dell’opera. Dove ha luogo «lo spettacolo, sempre tonico ed esaltante, dice Debenedetti, di un uomo che, con le buone o le cattive, prende per il collo un altro uomo e lo costringe a sputar le sue ragioni». Ed è così che il critico testimonia «anche del proprio temperamento, della propria storia intima». Fuga dalla Gioventù, per dire che il critico riconosce «sotto la trama logica dei propri discorsi un vivo grafico delle proprie avventure d’uomo».