Nell’orizzonte incerto di questi ultimi giorni, l’apertura della stagione al Teatro Argentina di Roma spetta sabato 17 al giovane regista Giacomo Bisordi – in scena fino al 25 ottobre – con la produzione del teatro stesso Uomo senza meta di Arne Lygre. Al centro dello spettacolo c’ è una cruda riflessione sulla spersonalizzazione causata da un sistema economico malato e autoritario, in cui gli spazi vitali si restringono e i significati scivolano via. Il protagonista Pietro, interpretato da Francesco Colella, è fondatore di città e distruttore di anime allo stesso tempo, marchiando irrimediabilmente i suoi affetti della propria sete di profitto.
Giacomo Bisordi, già assistente alla regia di Gabriele Lavia, Peter Stein, Milo Rau e Giorgio Barberio Corsetti, ha dovuto misurarsi con i limiti imposti dal distanziamento degli interpreti sulla scena, trovando in questo un terreno comune con il pubblico. Ne abbiamo parlato con l’autore prima del debutto.

Nel tuo percorso come regista ti eri finora per lo più dedicato ad autori britannici. Cosa ti ha spinto a scegliere il testo di Arne Lygre, norvegese contemporaneo ancora poco noto in Italia?
Nel teatro britannico ho affrontato un testo molto realistico di Penelope Skinner, poi mi sono dedicato a un’opera a cui sono molto legato, La repubblica della felicità di Martin Crimp, in cui il realismo viene messo in discussione. In quello spettacolo c’era una figura ossessionata dal dover scrivere il copione della propria vita, un tema che ritorna anche in Uomo senza meta pure se declinato diversamente. Per questo motivo penso ne rappresenti la prosecuzione ideale.

La situazione epidemiologica ha determinato dei limiti entro cui potevi operare. Come hanno interagito col tuo lavoro?
Il Teatro di Roma ci ha voluto dare il palco dell’Argentina per poterlo far vivere di nuovo, uscendo dalla dinamica che limitava ad uno o al massimo a due gli interpreti in scena. È stato molto difficile, perché questo testo prevede spesso una forte presenza e energia fisica. Abbiamo cercato di ovviare, in alcuni momenti riesce molto bene, in altri si potrebbe forse percepire che qualcosa manca.

Lo spettacolo in versione di studio preliminare ha segnato la riapertura del Teatro Argentina a fine luglio, sabato inaugurerà la stagione 2020-2021. Ti poni il problema di una sensibilità alterata da parte del pubblico in momenti così delicati?

Questo è il problema. Il mio lavoro nella sua semplicità cerca di fare un gesto verso lo spettatore, che vivrà la difficile condizione emotiva di trovarsi in 200 in un teatro da 700 posti. Vogliamo innanzitutto raccontare come anche chi è in scena condivide quella sensazione di solitudine, generando così un patto di alleanza tra chi è sopra e sotto il palco. Il teatro in questo momento storico non può reggere la competizione con l’intrattenimento, c’è bisogno di qualcosa di più, ovvero di una condivisione di una crepa, di una crisi.

«Uomo senza meta» ha un messaggio politico forte, c’è in questa tensione un punto di contatto con Milo Rau con cui collabori stabilmente?
L’incontro con Milo Rau e anche con tutto il teatro tedesco, in cui la sensibilità politica è il sine qua non per mettere in scena qualsiasi opera, è stato senz’altro importante. Qui abbiamo provato a raccontare come un sistema economico può offrire un senso del mondo basato solamente sul profitto e sulla sottomissione, in un momento in cui questo senso manca. Si mostrano alcune persone che delegano la propria identità a qualcun altro che li compra, li vende, li svaluta e li mette in competizione, facendoli sentire fragili e costringendoli alla costruzione di identità fittizie per riuscire a sopravvivere in un sistema ipercompetitivo. Come dice Philip Dick: «Una falsa realtà crea falsi esseri umani». Al di là delle direzioni drammaturgiche diverse come Rau sento il bisogno di rifocalizzare l’attenzione sull’essere umano e sulla sua traiettoria come specie.