Ci sono pochi dubbi che il Guggenheim di Frank Lloyd Wright sia un contesto che sembra pensato su misura per Alberto Giacometti. Sulla rampa e nelle nicchie che sia aprono sui lati, infatti, la scultura si accasa assai meglio che non i quadri. In più la scultura di Giacometti ha interiorizzato un movimento ascensionale, una spinta verticale, che in quel percorso in salita trova la sua situazione ideale: un effetto «mozzafiato», l’aveva definito la critica Dore Ashton quando Giacometti fu per la prima volta ospite della nuova sede del museo. Era il 1962, l’edificio era stato inaugurato da tre anni, e in quell’occasione veniva presentata la raccolta delle sculture della collezione Guggenheim in cui l’artista svizzero faceva la parte del leone. L’anno successivo ci fu una replica, con la presentazione delle sculture della celebre Hirshhorn Collection: Giacometti era rappresentato da quindici opere.
La sua familiarità con il mondo dei Guggenheim è di ancora più lunga data. Giacometti già nel 1940 era entrato nella lista dei preferiti di Peggy, che lo aveva inserito nel 1942 nella mostra d’apertura della sua galleria Art of this century a New York. Nel ’48 era stata lei a farlo esordire alla Biennale veneziana. Nel ’55 il Salomon Guggenheim, nella sua sede provvisoria al 1071 della Fifth Avenue, gli aveva dedicato una grande personale, replicata poi nel 1974. E ora arriva questa nuova mostra di grandi dimensioni, che per il catalogo e per i materiali informativi propone un’operazione sofisticata di memoria, riallacciandosi all’esposizione del 1955. In quell’occasione venne infatti coinvolto un famoso grafico e fotografo svizzero amico dell’artista, Hebert Matter. Matter fece disegnare da François Rappo un font effimero, sviluppato tutto in verticale, che oggi è stato ripreso per tutta la comunicazione della mostra. Peccato che a tanta coerenza di brand non corrisponda altrettanta attenzione nei contenuti: in catalogo non c’è nemmeno l’elenco delle opere esposte e la parte fotografica mescola confusamente immagini storiche con scatti fatti oggi, senza nessuna documentazione visiva dell’allestimento e della sequenza espositiva.
Palazzo déco a Montparnasse
L’aspetto interessante della mostra, a parte le dimensioni, è il ruolo avuto dalla Fondation Alberto et Annette Giacometti, costituita nel 2003 ed entrata da pochi mesi in piena operatività attraverso l’avvio dell’Institut Giacometti, in un palazzo déco di Montparnasse che per un breve periodo fu anche studio di Picasso. La Fondation è il maggior depositario di opere dell’artista al mondo, con 350 sculture, 90 dipinti, e oltre 2000 disegni. La mostra newyorkese ha attinto a piene mani da questo straordinario patrimonio: non a caso la co-curatrice è Catherine Grenier, direttrice della Fondation, che tra l’altro ha appena pubblicato in Francia una nuova biografia di Giacometti.
L’eccezionalità del patrimonio della Fondazione è data dal fatto che, grazie al lavoro di Annette dopo la morte del marito, qui sono confluiti i gessi che erano rimasti nelle due fonderie parigine Susse e Pastori. Dopo l’inventariazione si è proceduto a una certosina opera di restauro di pezzi che nel corso delle fusioni (che spesso venivano fatte anche ad anni di distanza), avevano inevitabilmente subito danni: un lavoro di cui si era resa una prima tesimonianza in occasione della straordinaria mostra parigina di dieci anni fa al Pompidou (L’atelier Giacometti).
I gessi sono quindi presenza prevalente anche sulla rampa del Guggenheim e inducono a un approccio più materiale e concreto al lavoro dell’artista, fuori da quella mitizzazione che tanto fa gongolare il sistema mediatico e naturalmente anche il mercato. È un Giacometti in fieri quello che ci si prospetta. Un Giacometti nella concretezza del fare e naturalmente del disfare. Per lui la scultura (ma si potrebbe dire la stessa cosa della sua pittura) è un cantiere permanente, che non conosce punti di approdo. «Faccio fondere le mie opere, ma è come se fosse una tappa», confessava l’artista all’amico Jean Clay nel 1962. È ben noto l’aneddoto del fratello Diego che per esasperazione si vedeva costretto a sottrarre le opere dallo studio mentre Alberto dormiva per portarle dal fonditore. Da questo punto di vista Giacometti è un puro figlio di Cézanne: per lui non esiste la parola fine («Cézanne ha aperto un baratro davanti al quale uno cerca di salvarsi come può», aveva detto nelle conversazioni con Yvon Taillandier).
Le labbra rosse di Flora Mayo
Nei gessi questa perenne ansia di non poter mai arrivare a un approdo è temperata da una ben percepibile affezione materiale al manufatto. Il lavorio continuo, riscontrabile anche nelle tracce di colore che si riscontrano in tante sculture, va spesso nella direzione di una sorta di tenerezza, quasi un voler trattenerne il calore reale. La grazia delle labbra dipinte di rosso nel giovanile ritratto di Flora Mayo, sua amante nei primi anni parigini, a inizio mostra è un segnale di questo rapporto non solo ansiogeno tra Giacometti e le sue creature. Più avanti ci si imbatte in un’altra figura femminile, la celebre Femme Leoni (il titolo è un omaggio a Peggy Guggenheim che a Venezia si era insediata nel palazzo Venier dei Leoni). Datata 1947, è un gesso sopravvissuto a tante modifiche e incidenti come dimostra la sua storia attraverso le fotografie. Reliquia e insieme monumento, svetta con i suoi 170 centimetri di altezza e ha gambe sottili come un gambo, poco più spesse dell’armatura che regge la scultura; il volto è tratteggiato di tocchi di rosso e di nero, con una delicatezza inattesa che si rinnova nella cura con la quale, con la stecca, è stato reso il gonfiore della capigliatura. Giacometti decise di tirare in bronzo la Femme Leoni solo nel 1957, dopo averla schierata come quinta figura nelle Femmes de Venise alla Biennale del 1956.
Anche una scultura iconica come La jambe, qui esposta in modo magnifico nella versione in gesso del 1958, non trasmette quella tensione corrosiva di un passo senza direzione, così esplicita nella versione in bronzo. Il gesso sembra piuttosto farsi quasi pelle che avvolge e protegge la magrezza e attenua anche l’effetto mutilazione. Certamente i bronzi rappresentano un esito quasi fatale, grazie al quale le sculture si consegnano a una dimensione che affonda nel tempo e si ritirano in uno spazio drasticamente e grandiosamente solitario. Tuttavia colpisce il lavorio «a perdere» che Giacometti dedica a questi che dovrebbero essere stadi intermedi, non solo con il ricorso alle policromie ma anche cercando ogni volta di definire il giusto zoccolo d’appoggio, che non sempre ritroviamo poi ripetuto nella versione in bronzo, come accade proprio nel caso della Femme Leoni.
Giacometti solo nel 1965 si decise ad attraversare l’Oceano. Lo fece in occasione di una sua mostra al MoMA. Ma il motivo vero che lo aveva convinto era visionare la piazza davanti alla Chase Manhattan Bank dove già nel 1958 era stato invitato a pensare a una scultura pubblica. Tornò in Europa immaginando di ingigantire sino a otto metri le sculture che aveva pensato di portare: una triade con una grande testa, un uomo che cammina e una donna in piedi, tutti esposti e ricomposti in mostra. Non ne fece nulla, anche perché gli restavano ancora pochi mesi da vivere. Oggi quell’installazione è conservata nei giardini della Fondazione Maeght a Vence, naturalmente non nelle dimensioni immaginate da Giacometti. Anche perché, come aveva rivelato Louis Aragon ricordando l’amico artista poco dopo la sua morte, se davvero si fosse convinto a realizzare una scultura per una piazza ne avrebbe fatta una piccola, «una cosa minuscola con tanto vuoto attorno». La retorica non si addice a Giacometti.