Nel 1929, a Parigi vede la luce una rivista che non poco ha influenzato il dibattito sul surrealismo e sulla storia dell’arte novecentesca. È in quella data infatti che esce il primo numero di «Documents», progetto editoriale nato dall’incontro di Georges Bataille e Pierre d’Espezel, entrambi impiegati presso il Cabinet des médailles della Bibliothèque nationale de France. Fra gli altri, in quell’occasione Bataille introduce il concetto di «informe» come categoria in grado di scardinare le maggiori teorie critico-estetiche dell’epoca. In ottica batailleana, l’informe «non è soltanto un aggettivo dotato di un certo senso, ma una parola che serve a declassare. Quello che designa non ha diritto in alcun senso e si fa schiacciare ovunque, come un ragno o un lombrico». In realtà, per Bataille l’informe è un anti-concetto. Esso ha il suo valore proprio nella capacità di annichilire ogni tipo di categoria o giudizio, di ripristinare il predominio del materico sull’intellettuale, del corpo sul pensiero. In questo senso, l’arte si configura come spazio creativo del tutto primitivo, dove ogni pulsione inconscia e istintuale è libera di manifestarsi per ciò che è, ovvero pura espressione dell’uomo collocato al di là del bene e del male, nello spazio originario della sua animalità.
L’informe trova nuovi interpreti soprattutto nella seconda metà del Novecento e in particolare all’interno del dibattito statunitense. Nell’articolo del 1983 No more play, Rosalind Krauss lo riprende per analizzare le opere di Giacometti, che per qualche anno aveva contribuito attivamente al progetto di «Documents». Secondo la critica americana, c’è una scultura che meglio delle altre mostra come l’informe rappresenti un modo del tutto nuovo di leggere i temi del Surrealismo e della teoria formalistica dell’arte. Si tratta di Boule suspendue del 1930-’31. Per Krauss, la trasgressione dei limiti – la «licenza di scioccare» surrealista – avviene qui non tanto sul piano delle forme (ossia del medium), quanto su quello del senso e del significato dell’opera, in questo caso mai dati una volta per tutte. Infatti, le categorie di genere che identificano la palla e il cuneo come attributi maschile e femminile sono indecise e ambigue, per cui l’una si traduce senza soluzione di continuità nell’altra, e viceversa. In questo modo, per Krauss, Boule suspendue si fa simbolo di una lettura controcorrente dell’arte contemporanea. La sua lezione ci dice che l’informe non è mero abbassamento a immondizia o poltiglia, ma operazione strutturale volta a rendere vano qualsiasi tentativo di categorizzazione intellettuale e a liberare così l’arte dall’autoritarietà del pensiero.
Inconscio e psicanalisi
Si può partire da qui per entrare al Musée national Picasso-Paris e inoltrarsi nell’esposizione Picasso-Giacometti (a cura di Catherine Grenier, fino al 5 febbraio). Il percorso è una finestra sui molti punti di contatto che legano sia le opere dei due maestri sia le loro vicissitudini personali e amicali. In totale, dodici sezioni, dove al quadro dell’uno risponde la scultura dell’altro, in quello che a tutti gli effetti può essere considerato un vero e proprio dialogo fatto di pennellate e colpi di scalpello. E non è un caso se la sezione intitolata «Eros e Thanatos», forse la più riuscita, ospiti proprio Boule suspendue di Giacometti. Infatti, nell’intento dei curatori vi è la volontà di sottolineare un’affinità di vedute sorprendente, soprattutto in merito ai temi surrealisti della psicanalisi e dell’inconscio. In questa sala, fra le altre, a fare da contraltare alla scultura dell’artista svizzero troviamo Figures au bord de la mer di Picasso, sempre del 1931. Stesso anno di esecuzione, stessa trasgressione dei generi maschile e femminile: anche nella tela di Picasso i temi dell’informe sono all’opera. Su un bagnasciuga assolato, compare un groviglio di arti, lingue e corpi; due amanti uniti nel vortice dell’erotismo si mescolano e non si lasciano riconoscere: maschio e femmina s’intersecano e si perdono l’uno nell’altra. In entrambi gli artisti, il primitivismo delle forme ci riporta a un tempo primordiale, dove nessun significato può essere dato, dove tutto si dissolve nello scambio carnale di due voluttà amorfe e inconsce.
Sempre intorno ai temi dell’onirico e della psicanalisi, troviamo poi il dialogo tra Femme égorgée (1933) di Giacometti e Femme assise dans un fauteil rouge (1932) di Picasso. Anche qui il declassamento delle forme salta all’occhio: la donna smette di essere un concetto del pensiero e inizia a farsi simbolo ancestrale di pulsioni a metà strada tra il desiderio erotico e quello di morte. Ed è proprio in virtù di questo parallelismo che Giacometti avrebbe sempre espresso la sua fascinazione per la mantide religiosa, emblema di un orizzonte femmineo che tiene insieme appagamento sessuale e volontà di morte.
Come si vede, è soprattutto nei primissimi anni trenta che i due artisti si trovano a operare su un medesimo piano estetico-espressivo: quello dell’annientamento delle forme. Prima e dopo, i due percorsi presentano ugualmente delle affinità, ma in certi casi di carattere più aneddotico, in talaltri di natura più generale. Così, per esempio, le sezioni finali della mostra presentano la medesima ossessione nel ritrarre le figure delle donne amate – per Picasso Dora Maar, per Giacometti Annette – oppure la stessa volontà di tornare a soggetti maggiormente realistici e figurativi. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, da notare è la contrapposizione tra l’Homme qui marche II di Giacometti e L’ombre di Picasso. Le due opere occupano un piccolo atrio appositamente dedicato e si ha come l’impressione che l’ombra di cui parla Picasso sia proiettata direttamente dall’uomo in marcia di Giacometti. Una suggestiva disposizione espositiva che ancora una volta illumina una comunità di intenti e di vedute: dopo i disastri della Seconda guerra mondiale, un uomo avanza a fatica in mezzo alla tragicità della vita (Giacometti) e forse della sua condizione si può avere una rappresentazione nitida osservandone l’ombra piuttosto che il corpo (Picasso).
Due autoritratti
Allo stesso modo, stavolta in rappresentanza del periodo antecedente gli anni trenta, troviamo due autoritratti. Siamo nel campo del figurativo, ma già entrambi gli artisti denotano un’inclinazione verso tratti, colori e atmosfere dal sapore espressionista. Si stanno preparando ad abbandonare il mondo, in un viaggio che dall’oggetto li porterà all’informale, passando prima attraverso l’espressione soggettiva del proprio sé interiore.
Insomma, una mostra su Giacometti e Picasso, ma anche qualcosa di più. Il loro percorso, ripensando soprattutto a quanto detto prima a proposito di Bataille e Krauss, esemplifica in realtà un movimento storico-estetico che ha attraversato l’arte contemporanea tout court. In definitiva, si tratta della strenua lotta fra il reale e il possibile, fra la mente e il corpo, fra ciò che ha forma e ciò che invece dilegua nell’amorfo. Giustapponendo due artisti quali Giacometti e Picasso, l’esposizione parigina offre un angolo visuale netto e ben delineato; la lente con cui osservare le vicende dello spirito novecentesche si fa più chiara, avendo entrambi sintetizzato una medesima visione del mondo e della vita. Al cui centro si staglia minacciosa e imponente l’esigenza di esprimere il conflitto fra l’ordine costituito della società e quello libero della pura soggettività creatrice.