Su Alberto Giacometti si è detto moltissimo. Tra le cose più belle e che hanno definito l’immagine più peculiare dell’artista, le pagine scritte da amici con il quale lo scultore condivise affinità e dubbi: Jean Genet, George Limbour, Mario Negri, Man Ray, Sartre… E le fotografie. Migliaia di ritratti: Brassaï, Cartier-Bresson, Giorgio Soavi… Insomma, è difficile dire o immaginare qualcosa di nuovo su Giacometti che non resti schiacciato da quest’immensa mole di materiali. Così, come deve accadere in casi analoghi, l’unico modo possibile per rileggere la figura di un artista che ha lasciato tracce tanto profonde nella storia culturale, è tornare alle fonti.
Lo fa Catherine Grenier nel suo Alberto Giacometti Biografia (Johan & Levi, trad. di Ximena Rodríguez Bradford, pp. 307, euro 30,00). La direttrice della Fondation Giacometti ripercorre la vita e la carriera dell’artista svizzero proprio a partire dalle testimonianze dirette, dai documenti e dalle opere. La scrittura della Grenier cuce citazioni tratte dalla critica, dalla fitta corrispondenza fra Alberto e i famigliari, dai ricordi degli amici e delle amanti, e quasi scompare in pagine stese con un educato riserbo nelle quali sopravanzano e tengono il ritmo le ricerche, i tormenti, i dubbi, i successi dello scultore. In parallelo alla lettura vale la pena sfogliare il catalogo ragionato dell’artista riversato sul sito internet della Fondation: come il libro, un meticoloso «lavoro di squadra svolto sugli archivi e sulle collezioni».
Alberto nasce a Borgonovo nel 1901, tra le montagne della Val Bregaglia, nella Svizzera italiana. La famiglia abita a Stampa, un villaggio con poche centinaia di abitanti ai piedi della mole rocciosa del Piz Duan. Il padre Giovanni è uno dei pittori svizzeri di maggior successo della sua generazione: alla vita appartata e spartana in simbiosi con gli elementi naturali si alternano i rapporti con gli artisti, gli intellettuali e la clientela internazionale degli alberghi di Maloja e Sankt Moritz. È Cuno Amiet, il grande pittore di Solothurn, a fare da padrino ad Alberto; Ferdinand Hodler lo sarà invece di Bruno, il quarto e più giovane dei fratelli Giacometti.
Alberto cresce parlando tre lingue – italiano, tedesco e francese – e il dialetto bregagliotto che colora gli scambi più intimi con la famiglia. Il paesaggio della valle natale forma il substrato della sua memoria visiva.
Nei lunghi inverni a Stampa scopre i libri illustrati del padre. Ricopiandone le figure, la sua fissazione ossessiva sui dettagli si trasforma in un’aggressività dello sguardo con la quale dovrà fare i conti per tutta la vita e che lo salverà dalle tentazioni dell’astrattismo. L’arte del passato diventa una fonte d’ispirazione quanto la natura, e il disegno il mezzo «per comunicare, e per dominare. La mia matita era la mia arma… Niente mi poteva resistere».
Dal 1922 l’artista si trasferisce a Parigi. Lì Giacometti vive le sue stagioni, affronta le sue crisi che di volta in volta risolve attraverso la ricerca formale, in un parallelo tra arte e vita giocato su un piano lirico altissimo, complesso, profondo. Dopo un primo periodo formativo con Antoine Bourdelle, il vecchio assistente di Rodin, scopre Picasso, diventa amico di Campigli e s’interessa all’arte non occidentale che, insieme a quella dell’antichità, gli suggerisce nuove possibilità di stilizzazione. Sulle opere s’imprime una forza grezza, primitiva, che di lì a poco, grazie alla frequentazione dei surrealisti e all’esplorazione del proprio inconscio, si arricchisce di una connessione intima e misteriosa tra le forme e le proprie pulsioni, i ricordi, i desideri.
Le emozioni estreme da cui è divorato sono rielaborate in una serie di sculture iconiche. In esse, e negli scritti apparsi negli anni di maggiore aderenza al Surrealismo, la sua vita sentimentale, le sue relazioni affettive e sessuali che nei caffè non esita a sbandierare provocatoriamente, sono dissimulate e sublimate. Solo dopo la morte del padre-mentore e la conseguente crisi depressiva lo sguardo di Alberto torna a rivolgersi al modello e alla pratica del ritratto dal vero, come all’inizio del suo percorso. La rottura con Breton e i surrealisti è inevitabile. Di trauma in trauma, un appuntamento con la morte dopo l’altro, la vita e il corpo dell’artista si plasmano in un doloroso, continuo e metodico rimuginare scandito da infinite giornate di lavoro e nottate tra caffè e bordelli. I cambiamenti si riflettono sul fisico e sulle opere. Come lo descrive Limbour nel dopoguerra, l’atelier di rue Hippoliyte-Maindron «somiglia più a un’area demolizioni che a un cantiere di costruzioni» dove «tutto quel gesso un tempo è stato statue, ma Alberto, insoddisfatto delle sue opere, le demolisce, le scarnifica, le amputa, le rifà».
In quel momento di attività intensissima frequenta Sartre; è uno scambio decisivo tanto per l’artista quanto per il filosofo. Attraverso Sartre, Giacometti conosce Genet che, come Beckett, entra in perfetta sintonia con la sua opera. Nel frattempo incontra e sposa Annette la cui presenza, insieme a quella del fratello Diego, scandisce la routine quotidiana. Il successo e i guadagni sempre più copiosi non cambiano il suo stile di vita. Soavi: «L’impressione è che non abbia mai un soldo. E quando affonda la mano in tasca e ne esce una sigaretta viene naturale pensare: poveraccio, sarà l’ultima». E nello studio, Genet: «tutto è macchiato e buttato lì alla rinfusa, tutto è precario e andrà in pezzi, tutto tende a dissolversi e tutto fluttua: insomma, tutto è come colto in una realtà assoluta». Perché «ho fatto del mio meglio per stare il peggio possibile».
Giacometti sembra assumere come principio generale un suggerimento di Chistian Zervos: anche consunta e frammentaria, un’opera d’arte ha sufficiente forza plastica da restare di per sé un’opera. Perciò, secondo l’artista, colleghi come Picasso, Mirò, Mondrian, creano oggetti in cui «basta la minima macchia, il minimo buco perché perdano ogni valore. Questo non accade con un Rembrandt: anche coperto di polvere, anche macchiato, il suo valore resta intatto». Il nome del pittore olandese non cade per caso. Emerge dal dialogo con Genet che su Rembrandt progetta un libro rimasto incompiuto, e scrive: «un quadro di Rembrandt non solo arresta il tempo che faceva defluire il soggetto nel futuro, ma fa sì che esso riattinga le epoche più remote»; i suoi soggetti sono solennemente vestiti con una «luce di eternità».
La ricerca di Giacometti spinge in queste direzioni. I suoi modelli sperimentano pose lunghissime ed estenuanti; la resistenza fa emergere l’umanità che li abita, in un corpo a corpo tra i limiti fisici e lo sguardo dell’artista. E l’essenziale di questo processo, sempre fallimentare, non è tratteggiare una fisionomia e nemmeno la riuscita finale di un quadro o una scultura, ma la ricerca di per sé: «mi è assolutamente impossibile poter modellare, dipingere o disegnare una testa, ad esempio, così come la vedo, e tuttavia è la sola cosa che cerco di fare». Perciò «non so se lavoro per realizzare qualcosa oppure per scoprire il motivo per cui non riesco a fare ciò che vorrei». Da qui, l’eterno rovello e la distruzione continua.
Nei mesi prima della morte l’artista è fortemente indebolito, ma non abbandona le consuetudini, gettandosi a capofitto nel lavoro che è sempre più una vera e propria «mania», con la volontà ferrea «di arrivare a qualcosa, più che altro per disfarsene. Se faccio della scultura è per finirla, per farla finita con la scultura al più presto». La sua corsa verso l’assoluto si conclude, come nello scritto autobiografico che chiude il libro della Grenier, in un «baratro grigio» che assorbe centinaia di migliaia di anni di storia umana, l’11 febbraio 1966.