Chissà se ci ha pensato perché da ragazzo gli è capitato di posare per il padre o perché ama dipingere seppure «solo qualche schizzo», ma Alberto Giacometti Stanley Tucci lo aveva in mente da tempo così come il libro nato dall’incontro tra l’artista e lo scrittore e studioso d’arte americano James Lord, anzi Final Portrait – L’arte di essere amici comincia proprio dalle pagine che Lord scrisse mentre posava per un ritratto (Un ritratto di Giacometti, Nottetempo).

Certo Lord non avrebbe mai immaginato che la realizzazione di quel quadro si sarebbe protratta nel tempo costringendolo a giornate estenuanti nell’atelier, a continui rinvii della partenza con Giacometti che quando il dipinto sembrava prendere forma lo cancellava per ricominciare daccapo. Diciotto volte, tanti sono i ritratti che Lord fotografa prima di vederli scomparire sotto la pennellata furiosa di Giacometti accompagnati da altrettante conversazioni.

E questa ossessione per l’incompiutezza diventa il centro del film, che non è un biopic, la storia si concentra in quei giorni, ma cerca di illuminare attraverso l’ incontro tra due uomini molto diversi, Giacometti umorale e l’americano bello e un po’ interdetto – è Armie Hammer di Call Me by Your Name, un ruolo quello del giovane uomo d’oltreoceano attratto dal vecchio continente che rischia di diventare il suo abito – qualcosa dell’artista e del suo fare.

Tucci diventa un po’ Lord, chiude nell’atelier disordinato di Montparnasse (ricostruito a Londra) il film a parte qualche passeggiata, i bistrot di vino rosso, uova sode, cognac, una corsa in macchina… L’artista è l’artista, dunque egocentrico, umorale, un vortice intorno al quale si agglomerano le esistenze del fratello Diego, il cui lavoro è indispensabile ma oscuro e della moglie Annette, (Sylvie Testud) sempre infagottata in maglioni grossi e vestiti inguardabili – chissà perché – che cerca di dimenticare in qualche modo il tradimento esibito del marito con la giovanissima e cinguettante Caroline (Clémence Poesy).

Il fare dell’artista però rimane fuoricampo, Tucci non si sforza di cercare un’ interpretazione dal punto di vista che fa suo fosse pure sorpresa, esitazione, passione.
Filmare un’opera d’arte (e un artista )pone molte questioni, obbliga la macchina da presa a qualche guizzo e il regista a esporre anche qualcosa di sé. Fuori da questo rimane soltanto un teatrino della somiglianza (Geoffrey Rush che scuote i riccioli somiglia in modo impressionante a Giacometti) e poco importa che tutto sia vero o no capricci dell’artista compresi. Il «fare» e il suo mistero sono un’altra cosa.