Una scrittura necessaria, impellente, che si impone come non dilazionabile, dove «l’intelligenza delle emozioni», per dirla con Martha Nussbaum, guida la penna a trasmettere il «pensiero-esperienza» del singolare, fornendo il ductus per comprenderla.

È QUESTO L’AVVIO a scrivere per Giacoma Limentani, «una bella testa di capelli bianchi su una faccia più giovane, occhi verdi un po’ da maga. Scrittrice, traduttrice. E morà, maestra di sapienza ebraica», così si esprime Clara Sereni (Il gioco dei regni, 1993) per descrivere un’autrice dalla attività multiforme, traduttrice, saggista e abile narratrice, sempre attenta al valore della parola, a «storicizzare il dolore» e comunicare la «vera storia a chi voglia conoscerla».
Nella sua vasta produzione, Giacometta Limentani si è dedicata anche alla narrativa con tre racconti autobiografici: In contumacia (1967), Dentro la D (1992), La spirale della tigre (2003), accorpati nel 2013 in un unico volume pubblicato con il titolo Trilogia. Per leggere e attraversare questi testi, è necessario in via preliminare comprendere come è arrivata alla scrittura, lei uscita dall’esperienza bellica «con occhi dalla necessità addestrati a cercare l’anima delle persone» e situare opportunamente il genere di scrittura tra quei «libri che vogliono essere scritti, e solo a questa categoria possono appartenere libri che anche lontanamente siano collegabili alla massima vergogna del nostro secolo, specie se sono libri di narrativa e invenzione».

LA NARRAZIONE trasforma i «fatti particolari», contingenti facendo acquisire loro «un significato umanamente comprensibile», ce lo insegna Hannah Arendt, il raccontare aiuta a sopravvivere al dolore. Nella prospettiva di Arendt infatti «il racconto rivela il senso di ciò che altrimenti rimarrebbe un insopportabile succedersi di avvenimenti». Facendo proprio l’insegnamento midrashico «il poco che sorregge il mondo», Limentani prende l’abbrivio da «quel piccolo, personale flusso di vissuta esperienza, che trasforma una miriade di dati storici frammentari in umana, vivificante, costruttiva memoria» e l’aforisma diventa «paradigma dell’indispensabile simbiosi fra memoria individuale e storia collettiva», rinvio alla dualità inscritta nell’imperativo Zakhor!, e nel contempo «nesso tra cielo e terra, lettera iniziale della Torah e simbolo della coppia vista come imprescindibile bipolarità all’origine di qualsiasi flusso mnemonico e quindi creativo: di quel flusso vitalissimo che dalla memoria ebraica fa scaturire la narrativa ebraica, il narrante pensiero ebraico.

Nella sua storia personale di bambina ebrea, figlia di antifascisti, all’infanzia «negata» dall’irrompere delle leggi razziali, s’aggiunge la cinica offesa di uno stupro consumato su di lei undicenne da quattro squadristi, nel tentativo di piegare l’integrità morale e politica del padre. Uno stupro che la bambina tacerà anche alla madre perché «se nessuno sa, la cosa non esiste» ma il silenzio diventerà in certi momenti «aguzzo» come un pugnale, mentre la nonna, unica testimone dello scempio, resterà per lunghi anni la vestale del suo ostinato silenzio.
Il racconto Dentro la D (1992), in particolare, illustra molto bene la grammatica della narrazione di Limentani, assimilandola a una indagine indiziaria che interpella le principali figure parentali della sua estesa «tribù ebraica», interrogando le loro storie e i loro destini, scovando coincidenze, analogie, ricorrenze, antifrasi e contrasti. La narratrice dichiara di aver fatto propria e interiorizzato «la paterna passione di mettere a confronto immagini diverse per tentare di spiegare le persone in base a somiglianze o affinità con altre persone», a cui associa l’inclinazione per i giochi linguistici, le catene di parole con la stessa consonante iniziale:

E IN OGNI INDAGINE, accanto ai giochi linguistici sulle iniziali (nella fattispecie la lettera D evocata dal titolo) che conferiscono leggerezza e godibilità al racconto, non mancano le digressioni che allontanano, seppur temporaneamente, dal fulcro dell’indagine, come «in una caccia al tesoro anche i depistaggi fanno parte del gioco». A volte sono le battute d’arresto di fronte a una «quadriglia di controsensi», a insinuare il dubbio di usare l’indagine «come gli ubriachi usano i lampioni: a scopo di sostegno, non d’illuminazione».

Scopo dell’indagine è trovare risposte ad interrogativi irrisolti, a domande inevase, a giustificazioni non più convincenti per la bambina diventata adulta su eventi e comportamenti dei familiari. Se la bambina di allora, dal suo «rifugio segreto» sotto il tavolo della sala da pranzo, poteva ascoltare «senza riuscire a scorgere l’espressione dei loro visi» che riusciva però ad «immaginare dal tono delle voci», incapace tuttavia di spiegarsi comportamenti non congrui alle circostanze, sarà più tardi la lettura di alcune corrispondenze a restituirle la giusta prospettiva sugli eventi cruciali della sua famiglia, al di là dell’aneddotica familiare tanto puntigliosamente inseguita con inchieste e assillanti questionari.

A LEGARE INSIEME, come un filo di refe, i protagonisti di questa piccola tribù con le loro storie singolari è il motivo su cui si apre la narrazione: la vulnerabilità del padre al «pianto dei neonati». Il motivo rimbalza sulla figura della madre che, non avendo potuto allattare la figlia a causa di una mastite, l’aveva tuttavia allietata con della buona musica, inondandola di suoni, «il cibo universale dell’anima».
La Trilogia è «favola ripetitiva» che affonda in radici lontane, dove «la testimonianza segue l’eternità del tempo». Per questo, in ogni racconto si ritorna sugli stessi anni, sugli stessi eventi, sugli stessi personaggi, aggiungendo qualcosa in più rispetto al precedente, scoprendo nuovi nessi, nuovi profili, altre radici vive, non ancora sclerotizzate, ridando fisionomia ad altri nomi. Giacometta identifica in questo rincorrersi di ricordi una particolare forma di nomadismo della mente che – per seguire le rigide prescrizioni della nonna materna – la costringeva a muoversi agilmente tra codici linguistici diversi e ad accettare un codice a lei sconosciuto, la «barriera linguistica» della lingua russa con cui il padre e la madre erano soliti scambiarsi le affettuosità coniugali.

Così lavorando su immagini diverse, ricercando somiglianze ed affinità, viene ricostruendo i suoi «ricami» sulle storie familiari in «grappoli di ricordi». Avvertendo però che «dei ricordi, sia pure errati, mi è soprattutto caro quel costante fluire che, elaborato da sentimenti vivi, a volte meglio dell’erudizione fa rinascere personaggi e atmosfere creando nuovi rivoli di vita che legano il passato al futuro».

I SUOI RICAMI assomigliano ai rammendi di nonna Elena «che fissano trame connettive sulle lacerazioni dei tessuti». Allo stesso modo la scrittura di Giacometta fissa le trame che intersecano le storie della sua famiglia per ricomporre quelle lacerazioni inferte da miserie, offese, paure, odi e malvagità di uomini e donne. Sarà appunto il paziente lavoro di rammendo di nonna Elena e la sua rassicurante presenza che la aiuteranno a superare «un’eclissi totale della pietà» con il calore dell’amore.

Giacoma Limentani è convinta che il presente è condizionato da ciò che è accaduto prima e la nostra percezione delle cose più vicine è determinata da nuove conoscenze, nuovi pensieri riguardo a cose successe molto tempo fa. La spirale della tigre, scandita da cinque respiri narrativi, segnalati da altrettanti stacchi tipografici, allarga la narrazione ampliando l’orizzonte sui rami più remoti dell’albero genealogico familiare. Si apre con uno scorcio sul ghetto di Roma e sulla figura dell’avo Leone che nei suoi commerci di acqua diuretica scambia un carico di acqua miracolosa con una tigre impagliata con «striature perfette che le avvolgevano il corpo in una spirale».

Trasportata nella povera dimora di Leone, la tigre «si lasciò guardare», mostrando al suo affascinato osservatore le striature che avvolgevano il suo corpo: «settanta giri di una spirale compiuta». Scrivere per capire è un «atto d’amore», soprattutto quando «i segni impressi da una maturità vissuta cercando e anche sbagliando, spesso aiutano a rivivere l’infanzia con serena consapevolezza».

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Il volume

«Il mosaico della memoria. Omaggio a Giacoma Limentani», pubblicato da iacobellieditore, è a cura di Adriana Chemello con interventi di Valentina Bernardi, Giulia Brian, Helen Brunner, Paola Carù, Adriana Chemello, Giacoma Limentani, Stefania Lucamante, Chiara Xausa.

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Alla Casa internazionale delle Donne di Roma, da oggi fino a domenica, per il convegno della Società italiana delle Letterate

Il tema del convegno della Società delle Letterate, che si svolgerà alla Casa internazionale delle Donne di Roma da oggi a domenica 19, è l’«Abitare. Corpi, spazi e scritture».
Dopo l’introduzione di Alessandra Pigliaru (presidente Sil) e Francesca Koch (presidente Casa Internazionale delle donne), interverranno Nadia Setti, Dubravka Ugrešic. Laura Fortini, Giulia Caminito, Laura Marzi, Lia Migale, Liana Borghi, Francesca Maffioli. Tavola rotonda con Daniela Finocchi, Claudileia Lemes Dias e Betina Lilian Prenz. Omaggio a Giacoma Limentani, per i suoi 90 anni. Dialogo a più voci con Chiara Xausa, Valentina Bernardi, Helen Brunner. Coordina Adriana Chemello. Workshop tematici e lo spettacolo teatrale «Sette bambine ebree» di Caryl Churchill, regia di Marta Gilmore, introduce Paola Bono. Con la collaborazione di Pat Carra (autrice della vignetta in alto) ed Elena Leoni di Aspirinalarivista.it, la libreria Tuba e il patrocinio delle Biblioteche di Roma.
Anche l’ultimo numero della rivista «Leggendaria», n. 126, ha un inserto sul tema dell’abitare curato da Bia Sarasini.
Per info sul programma: http://www.societadelleletterate.it/2017/10/abitare-corpi-spazi-scritture/