Ghosteen, il diciassettesimo disco di Nick Cave con i Bad Seeds, il secondo dell’era del lutto, si apre con The Spinning Song, una canzone che inizia evocando Elvis Presley e finisce con poche frasi ripetute: «And I love you… Peace will come in time… A time will come for us». Se Skeleton Tree era la zattera a cui aggrapparsi, Ghosteen è galleggiare senza salvagente in mezzo all’oceano plumbeo in un lungo naufragio di cui si auspica una fine, purché porti finalmente la pace.

Ghosteen, il Fantasma Adolescente, è una cantata per voce, cori, pianoforte e sintetizzatori, sull’estenuante elaborazione della perdita del figlio Arthur, precipitato da una scogliera a Ovingdean nel luglio del 2015. Se non l’avesse già usato Ralph Vaughan Williams con altri intenti, il titolo avrebbe potuto essere Dona Nobis Pacem.

LA COPERTINA, opera di Tom Du Bois, gospel artist, ex ateo convertito alla fede cristiana, raffigura un Eden popolato di ogni genere di animali (manca solo l’unicorno) in un tripudio di kitsch fiabesco: ma lo scenario interno è una terra desolata in cui la ragione si dibatte per non smarrirsi, si appiglia all’arte e scopre che le metafore sono logore (Bright Horses), che la fontana da cui dovrebbe sgorgare creatività è solo il vezzo di un architetto nella hall di un albergo (Night Raid). «Oh my oh my oh my, I love my baby and my baby loves me» è tutto ciò che resta del rock and roll davanti a una realtà ineludibile e atroce: «Ne abbiamo parlato e riparlato, poi con l’auto siamo scesi giù al mare e siamo rimasti al parcheggio per un’ora o due» (Leviathan).

Di questi tempi Nick Cave vive prevalentemente negli hotel, quasi sempre accompagnato dalla moglie, «bianca e sottile come un’ostia». Insieme sono due guerrieri che non ammettono sconfitta, a tratti grotteschi, con i capelli innaturalmente corvini, altissimi, magrissimi e pallidi, zombie eleganti che aprono la porta della camera 33, ordinano dal room service, si affacciano alla finestra a guardare la pioggia, mentre sulla parete è appesa un’immagine raffigurante la Pietà.

Ghosteen è una sequenza di scene matrimoniali – lei che lava i vestiti del figlio nella back room, lei con la testa sul letto, adagiata nella pozza dei suoi capelli, lui che vuole solo renderla felice e aspetta che ritorni a vivere – talmente intime che vorresti chiudere la porta e lasciarli soli, due «fiocchi di neve in fuga».
Ghosteen è fatto della voce di Nick Cave che non è mai stata così espressiva, consapevole e dolente; di versi concisi e sanguinanti, sostenuti da sintetizzatori che fanno da bordone, da un pianoforte lirico ma mai romantico, da cori spettrali e rare percussioni. Un lungo recitativo sul fatto che «non c’è niente di sbagliato ad amare qualcosa che non puoi tenere in mano» ma nonostante l’inevitabilità del futuro, non ci si libera della risacca crudele del passato («the past with the savage undertow»).

L’ULTIMA traccia, o movimento, si intitola Hollywood. Si apre con un riferimento agli incendi che hanno devastato la California e fanno da cornice a una situazione personale altrettanto apocalittica. «Strisciamo dentro le nostre ferite e io sono quasi arrivato a Malibù». Wounds fa rima con Malibù ma è pronunciato come un ululato. Dopo aver evocato la figura di Kisa che nella parabola buddista si arrende alla realtà del figlio morto e accetta di seppellirlo, Nick Cave canta: «It’s a long way to find peace of mind, and I’m just waiting now for my time to come, and I’m just waiting now for peace to come. For peace to come».
Ghosteen si chiude così come si era aperto, con una lunga invocazione di pace.