I fantasmi di Tsushima sono quelli della storia e del cinema, illusioni spettrali, forme possibili ma ingannevoli, burattini in guisa di redivivi manipolati per sembrare così veri, con le loro ombre ectoplasmatiche, che quasi ci convincono, quasi. Ma in questo inganno fondato su premesse storiche e su ricordi e letture travisate del cinema c’è il Mito, tutto occidentale, di un Giappone feudale evolutosi tramite decenni di epica popolare con i fumetti, le serie televisive e i lungometraggi, una storia nella storia e quindi un cinema nel cinema, nuovo e prodigo di possibilità per chi lo «gioca». Dunque se di menzogna si tratta, è comunque una bellissima impostura, e non è il videogioco sempre, anche quando più credibile, una dolce, meravigliosa bugia?

Ghost of Tsushima di Sucker Punch è (forse) l’ultima esclusiva per Playstation 4 e con un realismo confutabile dopo pochi minuti di gioco ci trasporta nel Giappone del 1200, durante l’invasione dei mongoli. Proprio quando intuiamo vacillare le sue vane pretese cronachistiche e citazionistiche, Ghost of Tsushima rivela le tante bontà celate nel suo codice, come i versi di uno di quegli haiku che componiamo assorti in meditazione contemplativa tra un duello e una cavalcata sono celati nel panorama numerico del videogame; e non ci importa che questa forma poetica si sia affermata attorno al diciassettesimo secolo. Non ci interessa che volpi troppo carezzevoli si facciano seguire fino a segreti santuari come il coniglio di Alice nel suo strano mondo. Neppure che il codice Bushido che impone e stravolge l’etica mappata del videogame sia quello filtrato dall’imperialismo ottocentesco invece di quello originale. La credibilità ormai è crollata, soverchiata dalla meraviglia, crediamo ad ogni fantasma. Così cominciamo, lentamente, a infrangere gli idoli della tradizione, a colpi di katana, oltre che a liberare gli oppressi dagli invasori. Ghost of Tsushima è una storia di ribellione.

Un eroe fordiano?
Vestiamo i kimono e le armature di Jin Sakai, ultimo samurai di Tsushima dopo una terribile disfatta. Si tratta di un personaggio non banale, che ha superato traumi e paure con un’insolita forza d’animo, un guerriero romantico secondo una tradizione cavalleresca o western più che «chambara», al limite «fordiano» nella rilettura di Akira Kurosawa di certi caratteri del cinema di John Ford. Già perché Ghost of Tsushima sarebbe, secondo l’intenzione degli autori, un omaggio al cinema di Kurosawa, tanto che c’è addirittura un filtro, detto proprio «filtro Kurosawa», che ci fa esperire il gioco tutto in bianco e nero, come se poi il regista di Dodeskaden o Vivere non avesse realizzato anche film colorati in maniera eccezionale come Dersu-Uzala o Kagemusha. Il bianco e nero regala facili suggestioni, tuttavia rinunciare al colore penalizza gravemente Ghost of Tsushima per lo splendore abbacinante dei suoi panorami. Viaggiando per l’immensa Tsushima, compiendo azioni nobili o solo riflessive, cogliendo fiori, bagnandoci in vaporose acque termali, lottando, cavalcando e seguendo sempre il flusso aereo del vento verso nuovi, stupefacenti panorami, ci innamoriamo non solo del gioco ma della sua terra fittizia; diventa così categorico l’obbligo etico di liberarla, tradendo persino il codice più alto del samurai fino ad uccidere (dopo un immane struggimento) il nemico alle spalle e giungere a dubitare del nostro mentore e signore.

Attraversiamo selve di alberi dalla cima dorata, boschi di aceri rossi che si aprono su torrenti placidi finché non scivolano in dolci cascatelle, vaste pianure di fiori rossi e bianchi, spiagge di sabbia fine dove le onde si infrangono gentili alla luce di tramonti scarlatti e albe arancioni che piegano ogni forma con una grazia rara, risaie su cui si specchiano le nuvole inquiete, nevi bianche e dorate. Inevitabile cogliere l’orrore di panorami deturpati dalla guerra e il dolore del popolo: così la determinazione per la nostra lotta partigiana cresce, si intensifica così come le nostre abilità offensive di samurai implacabili.

Siamo lontani dal comunque lontano Sekiro, per quanto riguarda il sentire, come giocatori, il peso e le conseguenze di brandire una katana o ai virtuosismi digitali e la quiete interiore necessari nel videogame di Miyazaki per usarla con efficacia; tuttavia il combattimento fluido di Ghost of Tsushima è appagante, dominabile con facilità ma non per questo troppo elementare.

Sta a noi decidere come agire, se seguire la via dell’onore e affrontare sempre il nemico frontalmente, annunciandoci, o preferire l’approccio più meschino, ma talvolta inevitabile, della segretezza e dell’invisibilità. Ma risulta assai più soddisfacente non abbandonare «la via dell’onore», anche perché le dinamiche ludiche dedicate all’agire nell’ombra non sono così riuscite a causa della non elevata intelligenza artificiale dei nemici.

Più di un Open World
Se non fosse per la potenza pittorica dei suoi panorami, per la forza drammatica di alcuni segmenti narrativi, per la possibilità di farci «fare un cinema» con le sue immagini che non è solo quello di Kurosawa ma di Kobayashi, Mizoguchi, Kitano o Miike Takashi, Ghost of Tsushima potrebbe essere un «open-world» qualsiasi, ma è invece molto di più: è una «isola che non c’è» dove al posto di Capitan Uncino e la sua ciurma di balordi ci sono dei mongoli invasori, un luogo per fuggire dopo sonni agitati e tristi veglie e dove smarrirsi restando per sempre giovani e seriamente giocosi nell’amenità delle sue terre e nell’illusione della loro realtà; un sogno ludico lungo decine di ore nella parodia squisita di una terra esotica, durante il quale divenire un samurai implausibile, ma del quale aneliamo l’umana, pia nobiltà e l’abnegazione che non esclude un arbitraria sommossa dello spirito.

Federico Ercole

La conflittualità della storia nello sguardo di uno sconfitto
Tramite il conflitto interiore di Jin Sakai, il protagonista di Ghost of Tsushima, Sucker Punch racconta i conflitti esteriori della nostra contemporaneità. Infatti il nostro eroe, che rappresenta un samurai dai valori più mitologici che storicamente attendibili, viene cresciuto in un sistema di cieca fiducia verso le istituzioni precostituite, e viene educato a credere che il mantenimento dello status quo sia più importante persino della salvezza dei deboli e degli oppressi.
Eppure, a seguito della disastrosa sconfitta militare contro i mongoli invasori che fa da sfondo al racconto, si trova a conoscere da vicino e per la prima volta il popolo, che sopravvive giornalmente alla fame e al dolore già da prima del nuovo nemico. È da quest’incontro che il suo mondo inizia a sfaldarsi: il pragmatismo di chi resiste si scontra con l’idealismo di chi può permetterselo, straziando la psiche e il carattere di Jin, schiacciato tra la voglia di aiutare i deboli e l’imperativo morale di non tradire la sua classe sociale, che all’epoca era una vera e propria casta.

Da apprezzare, in tal senso, la scelta di Sucker Punch di non darci una vera e propria scelta su questo cambiamento, che invece avviene per obbligo di sceneggiatura, sottratto alle vogliose smanie del giocatore: Jin, personaggio in quanto tale, osserva dal vivo il dolore e la sofferenza dei deboli, e la sua umanità ha la meglio sulla difesa delle tradizioni, di valori nati in un contesto non più adatto a fare ciò che ogni essere umano dovrebbe fare, ossia aiutare chi ha bisogno. Pertanto, al contrario di giochi incentrati sull’espressività del giocatore come i titoli Arkane, Ghost of Tsushima ci guida a seconda della volontà del racconto, obbligandoci in un caso a seguire le regole del Bushido (quello imperialista di fine ‘800, non quello originale), in altre quelle del pragmatismo e della strategia. Così facendo, anche nel giocatore matura la volontà di abbandonare lentamente il pur splendido duello che attinge dall’immaginario occidentale del samurai, che richiama a grandi linee le estetiche di Kurosawa, per lasciarsi andare allo stealth, all’assassinio, al tradimento, all’inganno. In tal senso, il gioco cerca anche di stimolare una riflessione sul potere del vigilante e sulle sue responsabilità, ma il nemico che affrontiamo è talmente violento e inumano che qualsiasi domanda etica si perde nell’eco delle loro brutalità.

E dunque ogni arma, ogni strumento concesso a Jin dagli sviluppatori diventa legittimo simbolo di resistenza, anche quando disonorevole: bombe fumogene, kunai e dardi avvelenati sono strumenti atroci, ma necessari per abbattere un nemico altrimenti impareggiabile in campo aperto. È proprio per queste dinamiche conflittuali nell’animo di Jin che, una volta esauritasi la banale e claudicante sceneggiatura principale, è bene lasciarsi trascinare dal mondo di gioco, desideroso di liberare l’intera isola dalla soffocante presenza nemica.

È proprio nella messa in scena di queste fasi, le più lunghe, corpose e rilevanti del gioco, che emerge l’altro grande conflitto dell’opera, che rispecchia quelli della nostra era: la battaglia tra produzione e creazione.
Infatti, per ogni aggiunta dedicata a concedere al giocatore la possibilità di vivere questo conflitto interno a Jin se ne produce una che ha l’obiettivo di accrescere i contenuti del prodotto, di renderlo più ricco, appetibile, quantitativamente rilevante. Il gioco è costellato, come tutte le produzioni simili, di decine di attività ripetute che privano di valore e bellezza l’azione stessa: tra tutte, le teoriche missioni dedicate all’animismo che caratterizza la cultura giapponese (il legame dell’umanità con il tutto che la circonda) si traducono purtroppo nella paradossale antropocentrizzazione del mondo di gioco.

Infatti, volpi, uccelli e persino elementi atmosferici hanno la funzione di guidarci da un punto all’altro della mappa per sbloccare contenuti e potenziamenti, e di conseguenza il loro ruolo non è di collaborazione con il giocatore (come in The Last Guardian), ma di totale sottomissione al suo volere. Nel voler giustamente citare un tratto culturale così identificativo di quel periodo storico, ma dovendolo inserire in logiche di consumo della nostra era, Sucker Punch mette in mostra la nostra incapacità di vederci come parte del tutto, e non come perno da cui irradia la vita.
Dunque, sia nei processi che lo hanno prodotto sia nelle evoluzioni del suo racconto Ghost of Tsushima mostra la conflittualità della storia, i continui ribaltamenti, le incoerenze e i contrasti tra tradizione e innovazione, desiderio creativo e necessità produttive. Nel farlo, si inserisce in un settore già ricco ma non per questo escludente di esperienze parimenti variegate e altrettanto conflittuali, cercando di fare un passo più in là, dato che non sovraccarica l’utente, ma non lo lascia neanche libero di comprendere il suo mondo. Sarà il giocatore a stabilire quale di queste involontarie fazioni vincerà la scontro. Proprio come Jin.

Claudio Cugliandro