Con un quanto di superstizione, come sempre in questi casi, non riesco a non notare come per arrivare alla piccola e importante mostra di Luigi Ghirri, al MAXXI (Atlante, a cura di Margherita Guccione, Bartolomeo Pietromarchi e Laura Gasparini, sino al 21 gennaio), si passi per Gravity («Immaginare l’universo dopo Einstein») e poi per l’atlante stellare di Anselm Kiefer, Sternenfall. La prima e le ultime delle 41 fotografie (di recente ritrovate) che Ghirri raccolse nel 1973 in un libro d’artista intitolato Weekend, e vennero poi esposte col titolo Atlante, sono a loro volta, infatti, immagini di stelle. La prima è presa appunto da un atlante astronomico (coi nomi delle costellazioni: HOROLOGIUM, SCULPTOR ecc.); le ultime due invece, parrebbe, «dal vero» (così anticipando la serie Infinito, coi 365 cieli diurni ripresi uno al giorno). E proprio questa dialettica – fra rappresentazione segnica del mondo e sua riproduzione diretta – è il tema di Atlante. Salendo le scale del MAXXI si legge una frase di Ghirri: «tutti i viaggi possibili sono già descritti (…) il solo viaggio possibile sembra essere oramai all’interno dei segni, delle immagini». Quelle di Atlante sono immagini di immagini, descrizioni di descrizioni: ingrandimenti delle tavole di diversi sistemi cartografici, che ne evidenziano toponimi e coordinate.
Quasi sempre negletta, oggi, è la «matrice concettuale» di Ghirri (come la ricorda lui stesso nelle preziose Lezioni di fotografia pubblicate da Quodlibet nel 2010). Nella ricca monografia di Ennery Taramelli, Memoria come un’infanzia Il pensiero narrante di Luigi Ghirri (Diabasis, ill. col., pp. 275, euro 28,00), si insiste opportunamente, invece, sulla couche emiliana dei Guerzoni, dei Della Casa, dei Parmiggiani (a sua volta collegata al «parasurrealismo», post-63, dei Costa e degli Spatola); e, come volevasi dimostrare, al MAXXI è esposto un libro d’artista appunto di Claudio Parmiggiani (con testi di Emilio Villa e Balestrini) che già nel ’70 aveva per titolo Atlante: le fotografie, di mappamondi accartocciati in barattoli di vetro, erano proprio di Ghirri.
Gli spettatori nel teatro barocco
In uno dei tanti scritti da lui dedicati al fotografo suo mentore (ancorché di lui più giovane di sei anni…), Gianni Celati riporta un’idea di Ermanno Cavazzoni: a lui le foto di Ghirri ricordano gli spettatori in scena nel teatro barocco: così che «l’atto di osservazione è un lavoro di lettura, come la lettura d’un libro». Rarissime le figure umane presenti negli scenari «metafisici» di Ghirri; e, quasi sempre, riprese di spalle. Dall’appassionante saggio di Luigi Grazioli, Figura di schiena (e-book doppiozero), imparo che il tòpos dell’«osservatore incluso» – che nasce nel XV secolo e si afferma nel XVII – ha quasi sempre, in origine, una valenza appunto teatrale: la scena è incorniciata dai suoi spettatori come a sottolinearne l’importanza, ma anche presentandola come «già-vista». E nell’Atelier di Vermeer, davanti al pittore, c’è una carta geografica…
Sino alla fine Ghirri amerà incorniciare le sue immagini in quelle che definisce «inquadrature naturali», che nelle Lezioni chiama «quinte teatrali». Il fascino degli orizzonti padani e delle «marine» romagnole, nei canonici anni ottanta, sta nelle ascisse e nelle ordinate del filo dell’orizzonte e delle linee verticali o diagonali che lo vanno a incontrare. È il caso di molte delle magnifiche fotografie di paesaggio ora esposte, insieme alle sculture di Paolo Icaro, nella severa quanto sognante cornice di pietra e acqua dell’area Carlo Scarpa, alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia (Le pietre del cielo, a cura di Chiara Bertola e Giuliano Sergio, sino al 28 gennaio). Non è un caso che, tanto per lo scultore che per il fotografo, fondamentale sia stato l’incontro con l’architettura (con quella di Aldo Rossi, ma anche dello stesso Scarpa, per Ghirri).
L’intervista di Marco Belpoliti
Eppure è innegabile che, come nella traiettoria di Celati, vi sia in quella di Ghirri una svolta del respiro. Lui stesso dirà della necessità di passare «da una fotografia di ricerca a una ricerca della fotografia». In un’intervista a Marco Belpoliti, pubblicata su queste pagine nel 1984 (per la mostra collettiva da lui curata, Viaggio in Italia), dirà Ghirri che l’immagine codificata, il «luogo comune» del nostro paese, è un a priori da superare: davanti per esempio a Piazza San Pietro «il problema è quello di vedere attraverso tutte le immagini precedenti quel luogo e nel contempo di cancellarle per avere una propria “prima visione” di piazza San Pietro». Se nell’Atlante si vedono solo i segni sulle carte, dei suoi paesaggi dirà Ghirri nell’89 di aver voluto fare una «geografia sentimentale», cioè «una cartografia imprecisa, senza punti cardinali».
La sua rivoluzione copernicana consiste nel fare, di questi «segni entro cui lo spazio si rappresenta», delle «soglie per andare verso qualcosa» (Verso la foce, s’intitola il testo di Celati che accompagna Viaggio in Italia). E il lavoro del fotografo, come quello dello scrittore, sarà in primo luogo quello di uscire di casa. Le sue fotografie, allora, saranno quasi sempre all’aperto. All’Aperto, anzi. E l’immagine forse più emblematica di Ghirri, quella del ’79 coi due escursionisti ripresi (ovviamente) di spalle mentre si dirigono confidenti verso le Alpi di Siusi all’orizzonte, non si leggerà più (solo) come ironica demistificazione di un «luogo comune» ma, quasi al contrario, alla stregua di un esorcismo: come quello, nella palude, del Barone di Münchhausen.