Ciò che si chiama società letteraria è un reticolo di corrispondenze, di rapporti anche a distanza, di dialoghi, di passioni e dunque di polemiche e perfino di litigi. L’importante è che da qualche parte possa ravvisarsi un punto dove tutte queste cose vanno a convergere, uscendo dal circuito personale così da diventare significative – almeno un po’, almeno per piccole cerchie – anche per altri. La nascita può essere sollecitata da un magistero condiviso nonostante la differenza anagrafica, dalla conterraneità anche solo ideale o acquisita per i giochi del caso, da fattori i più imprevisti.
Le lezioni di Roberto Longhi hanno costituito un tessuto capace di connettere tra di loro intelligenze e sensibilità diverse, anche quando il nome del maestro non è pronunciato o non balza immediatamente in primo piano. Così sembra leggendo Tra due città (il Mulino, pp. 160, € 15,00), che raccoglie le lettere scambiate tra il 1951 e il 1995 tra Attilio Bertolucci e un critico e saggista di cose d’arte di grande eleganza in scrittura e pensiero, Roberto Tassi: lo ha curato, introdotto e ampiamente annotato Elisa Donzelli, mettendo in evidenza i diversi contesti in cui le lettere nacquero, così da costituire per tasselli un bel capitolo di civiltà non solo letteraria.
Il carteggio pluriennale presenta vari fuochi, come ovvio in un’inarcatura temporale così distesa. Ma sostanzialmente i fuochi possono essere ridotti a due, ben accesi. Il primo è la città di Parma, anzi per meglio dire il sentimento della città di Parma, dove Tassi vive pur provenendo da un’altra città, e da dove Bertolucci è partito, essendo nato in quelle terre che hanno in Parma il loro punto di attrazione. Questa vecchia capitale celebrata dalla letteratura nei secoli, innesca una reazione incrociata tra Bertolucci e Tassi: da una parte il pathos della distanza; dall’altra l’idea di abitare in una realtà troppo piccola e perfino angusta da poter essere una specola per guardare il mondo. Il secondo fuoco è una rivista che è essa stessa una piccola leggenda, ispirata da Bertolucci e diretta, con propria ispirazione, non epigonale, da Tassi: intorno a «Palatina» si aggregano nomi che, da ogni parte d’Italia, prendono spazio sulla rivista.
L’anno d’inizio del carteggio è quello del trasferimento di Bertolucci da Parma a Roma, la seconda città alla quale il titolo del volume fa riferimento. Il sodalizio tra il poeta e Tassi dura dal 1938, quando Bertolucci insegna presso il Convitto «Maria Luigia» di Parma e Tassi, che è nella città dal 1924, siede sui banchi come allievo. Il rapporto con Longhi si avvia per Tassi dagli anni quaranta, sia tramite Bertolucci, sia per l’intermediazione di Francesco Arcangeli, uno dei più brillanti allievi del Maestro, col quale ebbe infine una vicenda tormentata (non fu l’unico, ma questa fu più dura di altre).
Quando se ne va da Parma, Bertolucci sta per pubblicare La capanna indiana, che uscirà nella «Biblioteca di Paragone», ovvero nella collana che costeggia la leggendaria rivista diretta da Longhi. «Palatina» consente a Bertolucci e Tassi di continuare il dialogo a distanza; la rivista si fa a Parma ma l’osservatorio che ne registra i movimenti è a Roma. Così Bertolucci scrive nel febbraio 1959 che la rivista «funziona sempre, e qui se ne parla sempre di più. Piace il suo non fanatismo, piace forse troppo a certa gente un po’ scettica». E, in un momento di crisi, nel maggio 1964, poco prima della chiusura (la testata dura dal 1957 al 1966), il confronto sarà ancora con la rivista di Longhi: «Caro Roberto, che ci ripensiamo su P.? Qui vedo che tutti, da Cecchi a Flaiano (va bene, sono le vecchie generazioni, ma gente non da disprezzare) la leggono, per dirti, assai più che “Paragone”».
Una meravigliosa ghirlanda di nomi, una vera e propria costellazione di riferimento, viene dai contatti tessuti da Bertolucci e Tassi per «Palatina». Da questo punto di vista, come era stata «Botteghe oscure», redatta da Bassani per Marguerite Caetani, si trattava di una rivista aperta, si può dire secondo la lezione di «Solaria». Con, però, l’amabile e ricco tratto della grande provincia dal passato sontuoso, dotta e colta, ricca di temperamento, come basta a dimostrare l’apporto di Giuseppe Tonna, che in quel giro di anni volgeva in un italiano umoroso lo stravagante latino della Cronica di fra’ Salimbene e il maccheronico del Baldus.
In qualche caso idee ottime per le commissioni di articoli costano poi fatica e lungo inseguimento e energia mandata a vuoto. Nell’anno in cui esce La dolce vita, l’idea ottima è quella di chiederne una recensione a Gadda. Ma, scrive disperato Bertolucci (17 marzo 1960), «quanto al Gadda, la situazione è così. Che ha scritto in brutta copia il pezzo su La dolce vita e ora ci mette una gran fatica a ricopiarlo perché, lui uomo di minimi proventi, sta sudando attorno alla denuncia dei redditi come se fosse un magnate dell’industria». Il rapporto di Gadda col denaro, si sa, fu piuttosto complicato; e lo stesso Bertolucci, presentando l’idea un mese prima aveva premesso: «dovremo pagarlo benino perché lavorare gli costa fatica». Gadda, ammesso che la prima stesura fosse realtà, l’articolo non lo consegnerà mai, ma l’immagine dello scrittore che sbuffa come una vaporiera per compiere il dovere civico delle tasse vale un ritratto di psicocritica. Non è il solo incontro memorabile offerto da questo prezioso volume.