È appena tornato da un’escursione al ghiacciaio Canin, in Friuli al confine con la Slovenia, terza tappa della Carovana dei ghiacciai di Legambiente. Marco Giardino, glaciologo dell’Università di Torino, è il segretario del Comitato Glaciologico Italiano, che fornisce dati e supporto scientifico all’iniziativa. Il Cgi è la vera memoria dello stato dei ghiacciai alpini minacciati dal cambiamento climatico.

Professor Giardino, quale situazione ha trovato in alta quota?

Il Canin è un ghiacciaio molto diverso da quelli delle Alpi Occidentali. Si trova a una quota inferiore (2.100 m), ma in una zona in cui, per ragioni atmosferiche, nell’ultimo decennio le precipitazioni nevose sono state più elevate ed è quindi fortemente alimentato, testimoniando una resilienza dei ghiacciai delle Alpi Giulie. Ma ciò non deve ingannare.

In che senso, è come un riporto ai capelli?

Sì, proprio così. Lo scontro tra correnti, da una parte quelle che arrivano da un Mar Adriatico sempre più caldo e dall’altra l’amplificazione di quelle artiche che portano aria fredda, stimola una sorta di shampoo alle Alpi Giulie, che crea questo deposito di neve abbondante. È un’anomalia di questi corpi glaciali, studiata da Renato Colucci del Cnr-Isp, che ci ha accompagnati sul Canin. I dati mostrano che per 30 anni, dal 1979 al 2005, nelle Alpi Giulie c’è stata una risalita di quasi 500 metri della linea di equilibrio ambientale dei ghiacciai fino a sotto i 2.700 metri. A questa altitudine, nel 2005 era posta la separazione fra la zona di accumulo da quella di ablazione. Da 15 anni a questa parte, i picchi di precipitazione nevosa hanno invertito la tendenza, favorendo l’alimentazione di questi ghiacciai anche a quote inferiori. Ma questo non deve indurci in errore. La temperatura continua ad alzarsi, le medie estive della stessa zona sono aumentate di quasi 3 gradi, un aumento accentuatosi nell’ultimo decennio. Una situazione allineata con il resto delle Alpi, in cui, se questo trend non si invertirà, entro il 2100 spariranno tutti i ghiacciai alpini al di sotto dei 3.500 metri.

Che fare allora?

La rassegnazione non è un’opzione. Ed è il senso di questa iniziativa. Bisogna accelerare l’impegno nella mitigazione a livello globale e nell’adattamento a livello locale. Devono cambiare i modelli economici. E, localmente, si attuino misure «mirate» alle specifiche condizioni ambientali. Per ovviare alla mancanza di acqua, che si verificherà per il cambiamento del clima, si deve agire in maniera più oculata nell’uso della risorsa. Impariamo dal passato, le popolazioni Walser, migrate nel Monte Rosa, tra la metà del 1200 e l’inizio del 1300, trovatisi di fronte a cambiamenti climatici opposti a quelli attuali, cambiarono il loro modo di costruire le case e di regimare acqua. Le «buone pratiche» di adattamento ai cambiamenti del passato le osserviamo nelle Walserhaus e nei ru, i canali irrigui in quota tipici della Valle d’Aosta. Oggi, grazie alle tecnologie e alla potenzialità di calcolo, possiamo, attraverso modelli previsionali, interpretare gli scenari futuri e fare scelte consapevoli. E non vorremmo che qualche politico ignorasse i dati scientifici.

In una precedente tappa della Carovana siete andati sui ghiacciai della Val Martello, in Alto Adige.

È un paradiso per i glaciologi, perché nonostante il ritiro delle fronti il paesaggio glaciale mostra ancora la sua maestosa bellezza. Dal 1850 a oggi, c’è stato un ritiro di circa 1,8 chilometri del ghiacciaio della Vedretta Lunga. Durante l’escursione, è stato possibile illustrare in diretta il lavoro del Cgi, mostrando i segnali lasciati dagli operatori negli ultimi 40 anni. Una squadra di età diversa (Franco Secchieri, Pietro Bruschi, Giuseppe Perini e Giovanni Benetton), ricercatori e volontari che applicano un protocollo scientifico. Abbiamo con loro seguito in sequenza i segni lasciati sui massi dall’uomo e quelli sul paesaggio lasciati dal ghiacciaio, la cui fronte dal 1979 a oggi è risalita di quasi un chilometro. Nell’escursione è stato misurato un regresso di 28 metri tra il 2020 e il 2021. Sul ghiacciaio abbiamo scorto parti coperte da detrito, perché quando la temperatura aumenta degrada anche il permafrost e rende instabili rocce e detriti sui versanti. Se il detrito è fine la radiazione solare lo scalda e aumenta la fusione.

Nella prima tappa siete stati sull’Adamello, il ghiacciaio più esteso d’Italia, tra Lombardia e Trentino. Quali sono le condizioni di salute?

Siamo saliti dal passo del Tonale diretti al ghiacciaio di Presena, che non è più ormai un ghiacciaio ma un corpo glaciale rivestito da vistose coperture di teli che proteggono la neve per iniziare prima la stagione sciistica. Arrivati in cima, a fine della seconda cabinovia, ci siamo affacciati sul ghiacciaio del Mandrone, lingua effluente del ghiacciaio dell’Adamello. E abbiamo notato un contrasto impressionante tra corpi glaciali: l’Adamello è un vero ghiacciaio, ancora imponente. Ma vi è un contrasto tra le immagini storiche del Cgi e l’oggi, che testimonia un ritiro della fronte e una riduzione dello spessore impressionante, pari a 10-12 metri dal 2016. Sull’Adamello si vede ancora la vigoria del ghiacciaio ma anche la possibilità del suo collasso. Ci sono depressioni concentriche legate alla fusione alla base.

Così vi aspetta nelle prossime tappe della Carovana?

In Abruzzo, sul Gran Sasso, andremo a vedere un corpo glaciale molto sofferente, l’unico nell’Appennino. Si trova nella conca del Calderone e si sta coprendo di detriti ma il ghiacciaio resiste in profondità: una resilienza della natura. Poi, ci sposteremo nei ghiacciai del Gran Paradiso, tra Piemonte e Valle d’Aosta. L’8 settembre ci sarà una conferenza a Ceresole sui servizi ecosistemici che il ghiacciaio offre: un servizio di approvvigionamento idrico e di produzione energia. L’operatore Valerio Bertoglio mostrerà come avviene il rilievo della fronte glaciale, alla presenza di diversi ragazzi dei circoli di Legambiente. A Cogne, pochi giorni dopo, l’ultima tappa, dove daremo un tributo, non un requiem, ai ghiacciai in Valnontey grazie agli artisti Raffella Stagna e Andrea Caretto. Infine, ci sarà una caccia al tesoro con gli studenti della Rete delle Università Sostenibili del Piemonte e della Valle d’Aosta, per cercare segni dispersi del ghiacciaio in fondovalle. È impostante che i giovani comincino a occuparsi di ghiacciai, come fu nel 1895 con la fondazione del CGI.

Come sta il ghiacciaio del Gran Paradiso?

È in regresso. Gli operatori glaciologici del Parco nazionale Gran Paradiso hanno documentato un ritiro frontale di 335 metri nel solo 2019. I dati delle campagne glaciologiche coordinate per il Cgi da Marta Chiarle del Cnr-Irpi mostrano nella stessa area una contrazione dello spessore del ghiacciaio Grand Etret (20 metri in venti anni). Succede anche che il ritiro glaciale formi laghi, in posizione elevata e insicura. Si possono muovere o collassare, ecco perché quello creato dal ghiacciaio Grand Croux è stato monitorato e poi svuotato con l’intervento della Regione Valle d’Aosta e della Fondazione Montagna Sicura.