Ebrei? Certo, nulla giustifica quello che hanno subito, ma è pur vero che per tutta la loro storia sono sempre stati una minoranza gelosa della loro particolarità, che con difficoltà si è integrata con il resto della popolazione. Poi la loro mobilità e la loro bravura nel nascondersi nelle maglie della società per evitare persecuzioni hanno reso quasi naturale la loro vocazione al commercio e alla finanza. La prova? Sono stati loro a inventare cambiali e assicurazioni…
Negli ultimi mesi sono usciti due libri che fanno piazza pulita di questi pregiudizi. Si tratta di Italya Storie di ebrei, storia italiana di Germano Maifreda (pp. 352, e 24,00) e di Ebrei e capitalismo Storia di una leggenda dimenticata di Francesca Trivellato (pp. 416, e 25,00), entrambi pubblicati da Laterza nella collana «Cultura storica» e scritti da studiosi formatisi sui metodi della storia economica e sociale ma aperti a un intenso dialogo con la storia culturale e intellettuale: Maifreda è già autore di fortunati libri sulla struttura finanziaria dell’Inquisizione e su Giordano Bruno; Francesca Trivellato, docente a Princeton, è forse la nostra storica più nota a livello internazionale anche per la sua proposta di utilizzare lo sguardo attento al dettaglio rivelatore tipico della microstoria italiana per muoversi con maggior sicurezza nel più vasto mare della storia globale; soprattutto, ad accomunare i due libri è il loro tema di fondo, cioè il rapporto tra la storia ebraica e la più generale storia dell’Italia, dell’Europa e del mondo lungo l’arco dell’età moderna, cioè dal Quattro all’Ottocento.
Naturalmente ciascuno di essi segue poi la sua strada per avvicinarsi a quella meta. I sette capitoli che disegnano Italya, il nome della Penisola in ebraico, ridescrivono la storia degli Ebrei italiani dal Rinascimento al Risorgimento, da quando cioè in Italia venne per la prima volta tentata una misura destinata a un lungo futuro come il Ghetto (il primo venne creato a Venezia nel 1516, ma ben presto la Serenissima venne imitata dai maggiori poteri italiani dell’età moderna, Papa in testa), fino all’emancipazione durante il triennio giacobino (1796-’99) e alla parificazione legislativa ottenuta con l’Unità d’Italia. In modo convincente, Maifreda propone di non leggere più questa storia come la storia di una minoranza isolata, passiva e perseguitata. Al contrario, gli ebrei di Italya sono inseriti in una rete fittissima di rapporti economici, culturali, politici, amorosi con il mondo cristiano circostante. Sono poi capaci di negoziare attivamente con i poteri di volta in volta succedutisi negli antichi stati italiani. Particolarmente felici sono le pagine in cui Maifreda analizza l’atteggiamento del frastagliato mondo ebraico italiano verso l’apertura dei ghetti di fronte all’arrivo degli eserciti rivoluzionari dalla Francia: mentre c’è chi inneggia all’estensione di libertà, uguaglianza e fratellanza anche ai cittadini di religione ebraica (solo i maschi, naturalmente), c’è chi non vuole lasciare gli spazi ristretti ma sicuri del ghetto. Del resto lì avevano maturato lo ius gazagà, una sorta di diritto di proprietà sugli immobili, mentre fuori correvano il rischio di essere identificati dal resto della popolazione come agenti segreti della Rivoluzione (il mito del giudeobolscevismo nasce lì). Gli stessi illuministi e rivoluzionari non avevano poi un’alta opinione dei loro riti, che consideravano ancora più ripugnanti di quelli, già così superstiziosi, dei cattolici. Tutto questo senza contare che una compagine sovranazionale come l’impero asburgico, a differenza degli stati nazionali, poteva favorire i collegamenti con la dimensione più ampia della diaspora.
Nonostante il loro atteggiamento guardingo verso la modernità avanzante, gli anni della Restaurazione furono particolarmente duri per gli ebrei italiani, che dovettero ritornare nei ghetti e sopportare una recrudescenza di soprusi da parte delle folle controrivoluzionarie. Solo il Risorgimento e l’unificazione ne fecero ripartire la mobilità fisica e sociale, anche se va detto che nemmeno nei momenti più duri della ghettizzazione durante la prima età moderna l’ebraismo fu mai «monolitico, inerte e arrendevole». Però la crescita della popolazione ebraica in uno tra i più dinamici centri economici dell’Italia unita – Milano, dove gli ebrei passarono dalle poche decine del 1840 ai 6200 degli anni trenta del Novecento – è un dato che parla da solo. Se si vuole capire la distruzione degli ebrei d’Europa nella prima metà del Novecento bisogna partire da lì, dalla volontà di una parte della società di rifiutare la loro emancipazione, ricacciandoli in quello status di minoranza discriminata che però nel frattempo era ormai diventato incompatibile con il loro ruolo economico, politico e culturale nelle società prodotte dalla seconda Rivoluzione industriale. Ecco perché, nonostante si fermi a prima del Novecento, Italya è una lettura istruttiva anche per chi non si rassegni a ridurre lo sterminio a un delirio paranoico abilmente diffuso e gonfiato da un efficiente sistema propagandistico.
Mentre il libro di Maifreda brulica di tante storie diversissime, quello di Francesca Trivellato, che, come detto, è tra le interpreti più originali della nuova microstoria globale, parte da un caso singolo per trarre conseguenze più generali intorno al ruolo degli ebrei nella storia europea. Ebrei e capitalismo studia una «leggenda dimenticata», quella secondo cui gli ebrei medievali avrebbero inventato la lettera di cambio (o cambiale). Le lettere di cambio consentivano di convertire e trasferire moneta all’estero eliminando i rischi associati al trasporto di metalli preziosi e quindi gli ebrei le avrebbero create per sottrarsi alle conseguenze dell’esproprio dei loro beni ordinato da parte dei sovrani che li cacciarono durante tutto il Medioevo. Questa leggenda – perché di leggenda si tratta, visto che la cambiale è emersa dalla rivoluzione commerciale del pieno Medioevo – venne a galla per la prima volta nel manuale di diritto commerciale Us et coustumes de la mer di Etienne Cleirac nel 1647. L’opera venne concepita a Bordeaux e non per caso – sostiene l’autrice – visto che si trattava dell’unica zona d’Europa in cui, dopo la fine del Cinquecento, il cripto-giudaismo era tacitamente tollerato. Anche la Repubblica di Venezia o il Granducato di Toscana avevano offerto rifugio agli ebrei sefarditi cacciati dalla penisola iberica, ma avevano imposto loro di abbracciare l’ebraismo, con tutte le restrizioni che questa scelta implicava. Solo gli ebrei di Bordeaux non erano apertamente ebrei e, siccome il diverso inquieta soprattutto quando smette di essere tale, ciò sarebbe stato decisivo per far nascere l’associazione tra l’invisibilità degli ebrei e l’opacità delle cambiali, che nell’Europa preindustriale erano appunto l’equivalente di ciò che per noi sono i titoli finanziari più esoterici, una specie di derivati della prima età moderna.
Quella dell’invenzione ebraica della cambiale è dunque una falsa notizia che, come altri suoi parenti stretti – pensiamo alla credenza dei sudditi nel tocco taumaturgico dei re di Francia e Inghilterra – ci permette di studiare desideri e paure socialmente diffuse e altrimenti difficili da cogliere. Una volta messa in giro, infatti, la leggenda inventata da Cleirac si espanse a macchia d’olio. Per primo la riprese il Parfait négociant del protetto di Colbert Jacques Savary (1675), il manuale per mercanti più letto dell’Europa moderna. Non più Bordeaux, ma Marsiglia; non più l’ebreo invisibile, ma l’ebreo onnisciente, capace di prevalere sui concorrenti in virtù di una presunta preminenza negli scambi tra l’Europa cristiana e il Mediterraneo musulmano. Ma se i fattori cambiavano, il risultato era lo stesso e nemmeno la confutazione della leggenda nel primo trattato francese interamente dedicato alle lettere di cambio (l’Art des lettres de change di Jacques Dupuis de la Serra, 1690) bastò a fermarla. Anche perché le false notizie vengono spesso interpretate con significati opposti a quelli per cui nascono e così si conquistano sempre nuovi pubblici. Nel Settecento, ad esempio, l’invenzione ebraica della cambiale tornò a Bordeaux, stavolta nella mente e nella penna di Montesquieu, che contribuì a diffonderla, ma cambiandola di segno: avendo escogitato uno strumento di credito che permetteva loro di battere in astuzia i loro oppressori, gli ebrei resistettero alle persecuzioni, introdussero un nuovo dinamismo nell’economia europea, tagliando così le gambe al dispotismo.
E poi ci credettero, e vi costruirono sopra sistemi, Sombart, Weber, Marx… Solo in Italia la falsa notizia non attecchì, non perché i contatti tra la minoranza ebraica e la maggioranza cristiana fossero scarsi (da questo punto di vista il libro di Maifreda è esemplare) ma perché ebbe maggior corso la tesi alternativa secondo cui a inventare la lettera di cambio sarebbero stati i fiorentini.
Come dimostra lo scarso successo delle sue confutazioni, la falsa notizia dell’invenzione ebraica della lettera di cambio si spense quando si spense l’orizzonte d’attesa che l’aveva resa credibile: «nel pieno della seconda rivoluzione industriale, nuove istituzioni economiche e finanziarie – la fabbrica, la banca di deposito, la società anonima per azioni e il mercato azionario – assursero a simboli delle forze produttive e distruttive del capitalismo moderno». Solo allora la leggenda smise di fissare il confine tra il credito lecito e quello illecito. Ma anche quando il valore morale della leggenda venne eroso, per un singolare paradosso quest’ultima era ormai accettata come un fatto nel quadro delle scienze sociali dell’epoca, in pieno positivismo. Se ne trae una bella lezione per il presente: quando combattiamo la buona battaglia contro fake news, bufale e altre menzogne, faremo bene a ricordarci, prima di tutto, che è un lavoro lungo e paziente; e che spesso rischiamo di esserne noi stessi involontari diffusori.