«Arrestatelo, perché coloro che commerciano e vendono la loro patria dovrebbero essere puniti e arrestati», implorava ieri l’ormai ex ministro afghano della difesa, Bismillah Mohammadi, riferendosi al presidente Ashraf Ghani che ha abbandonato la presidenza afghana domenica con l’ingresso dei Talebani a Kabul. Ghani non solo non sarà «arrestato» ma ieri è arrivato sorridente negli Emirati, magari con la valigia piena di dollari come riferiva riferiva tre giorni fa l’agenzia russa Ria Novosti. E non sorprende che Ghani alla fine sia atterrato proprio negli Emirati. Perché proprio nel Golfo e in Medio oriente si intensificano le critiche all’Amministrazione Biden. È qualcosa che va oltre il racconto della «debacle americana», «il secondo Vietnam» e «Kabul la nuova Saigon». Dai paesi che fanno parte o sono vicini all’accordo di normalizzazione tra Israele e mondo arabo di Abramo siglato un anno fa, giunge una critica unanime alla «politica di disimpegno» degli Stati uniti. Ripetono che la rinuncia di Washington al ruolo di poliziotto del mondo non potrà non avere riflessi anche nella questione iraniana, con il «rischio» che gli Usa riconoscano libertà di azione e di manovra a Tehran e ai suoi alleati, l’Hezbollah libanese, i miliziani sciiti in Iraq e il movimento yemenita Houthi.

«Rabbia e timori degli alleati mediorientali degli Stati uniti sono destinati a crescere» ci dice l’analista giordano Uraib Al Rintawi «alcuni paesi, da Israele alle monarchie del Golfo, si aspettano che l’Iran e movimenti come Hezbollah o Hamas si sentano autorizzati a sfidare gli alleati di Washington, ritenendoli meno forti e meno protetti». Tuttavia, aggiunge Al Rintawi, «al di là degli scenari disegnati in questi giorni dalla stampa locale, è presto per fare delle previsioni sull’impatto della vicenda afgana in Medio oriente. Non è detto che l’Iran ne esca rafforzato».

Altri analisti arabi sono meno prudenti di Al Rintawi. «Il ritiro dall’Afghanistan sancisce il ritiro degli Stati uniti dalla regione del Grande Medio Oriente» sentenziava due giorni fa il commentatore Abdelwahab Badrakhan sul quotidiano saudita Al Watan. «Con questo ritiro – ha aggiunto – gli Stati Uniti cercano di lasciarsi alle spalle l’11 settembre ma stanno gettando le basi per una fase più turbolenta». Secondo Badrakhan «le potenze alternative che probabilmente colmeranno il vuoto americano sono la Cina e la Russia. I resti della presenza militare degli Stati Uniti (nella regione) non ispirano più alcuna fiducia nei paesi e i popoli che dipendevano e dipendono ancora dalla copertura della protezione degli americani». Badrakhan e altri sono certi che dopo l’Afghanistan, gli Usa abbandoneranno anche l’Iraq, lasciandolo nelle mani dei gruppi e delle milizie che fanno capo all’Iran, senza sottovalutare la possibilità di una rinascita in grande stile dell’Isis.

In casa israeliana la lettura del tonfo americano si avvicina a quella dei petromonarchi sunniti del Golfo. Dore Gold, un ex diplomatico ora analista del Jerusalem Center for Public Affairs, non esclude che la lezione afgana porti diversi paesi del Medio Oriente, compreso Israele, a lavorare insieme. Il messaggio è «che la dottrina israeliana dell’autosufficienza non ha sostituti», sostiene Gold «lo Stato di Israele ha sempre capito che non può affidarsi a forze straniere ma solo sulla capacità di difendersi da solo». Su questo è intervenuto anche l’ex primo ministro e leader della destra Benyamin Netanyahu, pronto a cogliere l’occasione per ribadire che Israele dovrà respingere l’idea dell’autodeterminazione dei palestinesi. E ha ricordato, su Facebook, di aver rifiutato qualche anno fa l’offerta dell’allora segretario di Stato americano John Kerry di vedere nell’Afghanistan un modello per una soluzione al conflitto israelo-palestinese. «Respinsi l’idea – ha scritto Netanyahu – e oggi otterremo un risultato identico (all’Afghanistan, ndr)… I palestinesi non fonderanno una nuova Singapore, stabiliranno uno Stato del terrore in Giudea e Samaria, a breve distanza dall’aeroporto Ben-Gurion, da Tel Aviv, da Kfar Saba e da Netanya».