Un giardino di rose, con boccioli di innumerevoli colori, e senza spine – ecco cos’era il Gezi Park che si affacciava su piazza Taksim nel cuore di Istanbul, all’inizio dell’estate del 2013. Uniti dall’idea del diritto alla cittadinanza, gruppi che in altre occasioni si sarebbero sentiti a disagio nel trovarsi fianco a fianco costruirono una temporanea vita in comune, basata sulla solidarietà e sulla condivisione. Questa straordinaria adunanza definì quello che oggi chiamiamo lo «spirito di Gezi». Le donne erano sempre in prima linea. Il popolo Lgbtq era lì numeroso per resistere, e con la sua presenza vinse i pregiudizi di molti. I musulmani anticapitalisti dimostrarono la differenza fra essere religiosi e usare la religione per fini politici, mentre gli ambientalisti misero a contribuzione le loro conoscenze e la loro consapevolezza. I gruppi nazionalisti avrebbero potuto non schierarsi, invece misero le loro tende accanto a quelle dei curdi. Gli ultras del calcio contribuirono con la loro forza e con la loro allegria, e il gruppo hacker Redhack costruì la roccaforte virtuale della resistenza. Ognuno portò con sé il suo amore sconfinato, condivise il proprio cibo, mise su biblioteche e piantò nuovi orti – nel parco si sviluppò la routine di una vita quotidiana.

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Halil Altindere Carpet Land, 2012

I media locali, con qualche eccezione, evitarono di parlare delle proteste, o le fecero passare come una minaccia per la società. Ma quando Recep Tayyip Erdogan, allora primo ministro, usò i poliziotti come fossero il suo esercito personale, la loro sproporzionata violenza si scontrò con una sproporzionata intelligenza. La resistenza assunse forme diverse, come leggere libri ai poliziotti o suonare la chitarra in risposta ai getti degli idranti.
Stencils e spiritosi testi di satira politica scritti con la vernice spray ricoprirono i muri. Mentre la gente continuava a protestare pacificamente e senza armi, sfruttando queste forme di contestazione senza precedenti, le cariche della polizia diventavano sempre più dure. Però, più la polizia attaccava, più il popolo restava unito. E tuttavia, alla fine, siamo fatti di carne e ossa. L’attacco finale contro il parco, il 15 giugno 2013, evacuò spietatamente ogni occupante.

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Inci Eviner “Nursing Modern Fall”, 2012

Nei giorni seguenti cominciarono a costituirsi delle assemblee pubbliche, non solo in diversi parchi di Istanbul, ma anche in altre città. Le fasi attraverso le quali si è giunti a questa agitazione sono descritte in modo chiaro nei testi di Orhan Esen e Vasif Kortun (pubblicati nel catalogo della mostra al Maxxi, ndr). Come fa notare Esen ricostruendo la cronologia degli eventi di piazza Taksim, non è un caso che gli abitanti di Istanbul si siano ribellati a un progetto che avrebbe distrutto la piazza, facendone il grandioso palcoscenico di una dichiarazione di dominio politico: «La città è il più coerente – e, nel complesso, il più efficace – tentativo dell’uomo di ricostruire il mondo in cui vive in conformità con i suoi desideri più profondi. Tuttavia, se la città è il mondo che l’uomo ha creato, è anche il mondo in cui è d’ora in poi condannato a vivere; per cui, indirettamente, nel costruire la città, l’uomo – pur senza avere una chiara percezione del proprio compito – ha costruito se stesso». La sollevazione del Gezi è stata un momento di risveglio, con il quale il popolo ha rivendicato il diritto di decidere in merito alle sue città; opponendosi al Governo, il popolo ha rivendicato il proprio potere su piazza Taksim. È anche attraverso questo processo, in un ambiente in cui le differenze venivano accolte e prevaleva la volontà di cambiare le strutture imposte dal Governo, che ci si è interrogati sul «costruire se stessi».

In questi travagliati giorni di guerra, in Turchia e intorno alla Turchia, in questi giorni di deportazioni e omicidi di massa, è necessario restare aggrappati a ciò che lo spirito del Gezi ha contribuito a fare di noi, perseverare nella coesistenza pacifica e solidale, e continuare a rivendicare il nostro diritto di costruirci il futuro «in cui siamo condannati a vivere».

* Curatrice turca della mostra al Maxxi di Roma «Istanbul. Passione, gioia, furore», insieme a Hou Hanru, Elena Motisi e Donatella Saroli