Li hanno deliberatamente spinti in acqua: almeno 106 migranti somali e etiopi sono morti nello stretto di Bab al-Mandeb spinti dagli scafisti che li stavano portando in Yemen. Erano tutti adolescenti, «l’età media era di 16 anni», spiega Olivia Headon, portavoce dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim).

È successo due volte, mercoledì e ieri: due imbarcazioni con a bordo 120 e 180 migranti sono state letteralmente svuotate dai trafficanti. Mercoledì sono morte 51 persone, ieri 55.

«I sopravvissuti hanno detto che gli scafisti li hanno spinti in mare dopo aver visto un qualche tipo di autorità vicino la costa – dice Laurent de Boeck, capo missione Oim in Yemen – Ci hanno detto che i trafficanti sono tornati indietro, verso la Somalia, per continuare i loro affari e portare altri migranti per la stessa tratta».

I corpi recuperati sono stati seppelliti dai compagni di viaggio su una spiaggia della provincia yemenita di Shabwa. Dei sopravvissuti solo alcuni sono rimasti, gli altri sono fuggiti prima dell’arrivo dei funzionari dell’Oim.

Non è la prima tragedia simile: altre imbarcazioni sono affondate, altre – come successo a metà marzo, almeno 42 morti – sono state bombardate dagli Apache sauditi.

«Troppi giovani pagano i trafficanti che gli vendono la falsa speranza di un futuro migliore», aggiunge de Boeck. Già, perché lo Yemen è sotto assedio militare da due anni e mezzo.

Ma la guerra brutale che l’Arabia Saudita e la sua coalizione di pretoriani gli ha lanciato contro non ferma i migranti africani. Per mancanza di informazioni precise, per quelle false che i contrabbandieri gli propinano o perché i loro paesi sono colpiti – allo stesso modo dello Yemen – dalla peggiore carestia dalla fondazione dell’Onu, nel 1945.

Tra le coste di Gibuti e Eritrea e quelle yemenite la tratta è breve, meno di 20 km. Più lungo il percorso dalla Somalia e più pericoloso a causa dei forti venti che spirano sull’Oceano Indiano. Se parti dal Gibuti paghi 150 dollari, dalla Somalia tra i 200 e i 250: «spiccioli» se paragonati ai costi della tratta mediterranea.

Tra i più trafficati ci sono i porti somali di Berbera e Lughaya, nel Somaliland, e quello di Obock in Gibuti. Si attraversano mar Rosso e Golfo di Aden per approdare lungo la costa ovest dello Yemen, nei porti di Hodeidah e al-Mokha (da mesi target giornalieri dei raid sauditi perché è lì che oggi la resistenza Houthi si concentra, vista la vicinanza con la strategica città di Taiz).

C’è chi dalla Somalia raggiunge la provincia est di Hadhramaut, per lo più controllata da al Qaeda. E c’è chi, come i migranti uccisi mercoledì, raggiunge la costa meridionale di Shabwa.

Partono comunque, alla ricerca di una via terrestre per arrivare nei ricchi paesi del Golfo, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Oman e lì lavorare in semi schiavitù per stipendi miseri. Dall’Etiopia partono quasi esclusivamente oromo, minoranza da sempre discriminata.

Ma il conflitto ha blindato i confini: Riyadh ha dispiegato l’esercito per frenare gli attacchi Houthi. E con cadenza regolare procede alla deportazione di migliaia di irregolari.

Secondo l’Oim dall’inizio dell’anno sono almeno 55mila i migranti che dal Corno d’Africa (per lo più Eritrea e Somalia) sono sbarcati in Yemen, 117mila nel 2016, 92mila nel 2015. I minori non accompagnati sono il 20% del totale. In tutto lo Yemen ospita oltre 270mila rifugiati e richiedenti asilo a cui si aggiungono gli sfollati interni yemeniti, più di tre milioni.

Numeri enormi per uno Stato fallito, diviso in autorità diverse, costantemente bombardato dai jet sauditi e vittima di un blocco aereo e navale (imposto da Riyadh) che impedisce l’arrivo degli aiuti e l’attività delle poche organizzazioni umanitarie rimaste ad operare.

Lanciata a marzo 2015, l’operazione «Tempesta decisiva» contro il movimento sciita Houthi ha ucciso oltre 10mila persone (numeri al ribasso, il bilancio Onu è fermo da mesi), provocato una carestia di proporzioni inimmaginabili con l’80% della popolazione, 20 milioni di persone, che non ha accesso regolare a cibo e acqua, e sviluppato un’epidemia di colera che ha già ucciso 2mila persone e che si diffonde ad una velocità impressionante.

Condizioni di vita disumane che spingono gli stessi yemeniti a prendere la via del mare, in direzione opposta: sarebbero 200mila i rifugiati (il 38% bambini) in Gibuti, Somalia, Sudan e Eritrea