I mandanti del massacro dei sei gesuiti dell’Università centroamericana di San Salvador, della loro cuoca Julia Elba e di sua figlia Celina, avvenuto il 16 novembre del 1989, non pagheranno per il loro crimine.

Il muro di impunità alla cui ombra hanno potuto dormire sonni tranquilli in questi trentuno anni è infatti rimasto in piedi, più forte delle pressioni internazionali, dell’annullamento della legge di amnistia nel 2016, del clamore suscitato dalla condanna in Spagna (lo scorso settembre) di uno dei mandanti della strage, l’ex viceministro della Sicurezza Inocente Orlando Montano.

Lui sarà l’unico a pagare, ma solo grazie all’Audiencia Nacional di Madrid, competente per giudicare il caso di assassinii di cittadini spagnoli all’estero (come erano cinque dei sei gesuiti uccisi).

La Corte suprema di giustizia salvadoregna ha invece un’altra volta dato scandalo, ordinando la chiusura del processo contro i mandanti della strage di cui il Tribunale di pace di San Salvador aveva disposto la riapertura nel 2017.

Per due voti a uno, i giudici hanno infatti accolto il ricorso, chiaramente inammissibile, della difesa dei militari, secondo cui si tratterebbe di «un fatto già giudicato» estraneo a crimini di lesa umanità.

Una sentenza, definita dall’avvocato delle vittime Arnau Baulena «un’aberrazione giuridica», che pone probabilmente la parola fine a un iter giudiziario iniziato già nel 1991. Quando, cioè, si era svolto un processo contro nove militari viziato da clamorose irregolarità e senza un solo interrogatorio ad accusati e testimoni, terminato con la sola condanna del colonnello Guillermo Alfredo Benavides e del tenente René Mendoza, rimessi in libertà appena 15 mesi più tardi grazie all’amnistia decretata nel 1993 dall’allora presidente Alfredo Cristiani.