Gerusalemme precipita verso l’abisso, nel disinteresse di una “comunità internazionale” che non vuole vedere le ragioni all’origine della tensione nella old city e nel resto della zona araba della città. Ieri altri 22 palestinesi sono rimasti feriti o contusi sulla Spianata delle Moschee. Per il secondo giorno consecutivo decine di agenti dei reparti anti sommossa della polizia israeliana hanno lanciato un raid nel luogo santo islamico. Gli scontri sono andati avanti per ore con i palestinesi che lanciavano pietre e molotov e i cecchini della polizia piazzati sui tetti pronti a sparare. Tre dei feriti ieri sera erano ancora in ospedale. «Terroristi intenzionati ad innescare violenze», li ha definiti un portavoce della polizia israeliana. «Il loro comportamento – ha aggiunto – rappresenta una profanazione cinica di un Luogo Santo».

 

Tutto ciò che accade viene descritto dalle autorità israeliane come una questione di ordine pubblico, con i musulmani che tentano di turbare il clima del Succot, la Festa ebraica dei Tabernacoli. Già, i soliti “musulmani fanatici” causa di tutti i mali. Le agenzie di stampa, quella italiana in testa, rilanciano questa tesi ed evitano di spiegare che i “turisti ebrei” ai quali i “musulmani fanatici” intenderebbero negare il diritto a visitare quello che considerano il biblico Monte del Tempio sono quasi tutti attivisti di organizzazioni messianiche, ultranazionalisti che invocano l’imposizione, anche con la forza, della “sovranità israeliana” sulla Spianata. Non precisano che mentre il premier Benyamin Netanyahu, nei comunicati ufficiali, afferma la volontà di rispettare lo status quo della Spianata e ripete che gli ebrei non avranno il permesso di pregare, ci sono ministri del suo governo che quello status lo vogliono cambiare radicalmente e che uno di essi, Uri Ariel, in quel luogo desidera costruire una sinagoga tanto per cominciare, poi un giorno, chissà, anche il terzo Tempio. Non scrivono che le nuove regole d’ingresso e di uscita per i musulmani e i non musulmani dalla Spianata approvate dal ministro per la sicurezza Gilad Erdan rappresentanto una prima importante modifica dello status quo, perchè queste regole fino a qualche tempo fa le decideva solo il Waqf, che tutela i beni islamici. Non si pongono una domanda: quale sarebbe la reazione degli israeliani se centinaia di palestinesi ogni giorno chiedessero di andare a pregare al Muro del Pianto, il luogo più sacro dell’ebraismo ma rilevante anche per i musulmani e nella vicenda dello stesso profeta dell’Islam Maometto?

 

Gerusalemme è una città dagli equilibri religiosi (e non solo) molto precari. Un filo sottile li tiene insieme. I cristiani pregano al Santo Sepolcro, gli ebrei al Muro del Pianto e i musulmani alla Spianata di al Aqsa. Il Tempio, distrutto dai Babilonesi prima e dai Romani, non c’è più da duemila anni fa. Da 1300 anni in quel luogo sorge la moschea della Roccia, terzo luogo santo dell’Islam. Spezzare quel filo, rompere quell’equilibrio, significa gettare la città nella catastrofe, scatenare un’ondata di sdegno e rabbia senza freni in tutto il mondo islamico, dal Medio Oriente all’Asia, dall’Europa all’Africa. Lo sanno anche le pietre in questa città causa per secoli di guerre religiose e spargimenti di sangue nel nome del Dio unico delle tre religioni monoteistiche. Eppure regna un silenzio internazionale assurdo, inspiegabile di fronte a questo avanzare della città verso il baratro, spinta dalla “forza della Redenzione”.

 

«Con l’occupazione (dei territori palestinesi) nel 1967 abbiamo assistito all’inizio della cosiddetta redenzione di Yehuda e Shomron (la Cisgiordania,ndr) e la forte ascesa del movimento dei coloni imbevuto dell’ideologia dei rabbini Kook padre e figlio (considerati i principali teorici del sionismo religioso, ndr). Ora siamo di fronte ad un nuovo obiettivo, a una spinta senza precedenti di forze religiose e nazionaliste che aspirano a ricostruire il terzo Tempio», ci spiegava qualche settimana fa l’ex presidente della Knesset Avraham Burg, ebreo osservante che da anni ha rotto con l’establishment politico israeliano. Parole sulle quali nessuno ha voglia di riflettere.