I piatti e le pentole da lavare si accumulano nella cucina di Umm Khalil. “Mi scuso per il disordine ma non c’è acqua, fino alla scorsa settimana dal rubinetto ne usciva un filo, almeno si riusciva a bere e a lavare poco alla volta bicchieri e piatti, ma da due giorni è tutto secco”, si lamenta la donna. “E questo è nulla, perchè non possiamo più lavarci, mettere in funzione la lavatrice e soprattutto usare lo sciacquone. E’ terribile!”, aggiunge Umm Khalil spiegando che per farsi la doccia è costretta ad andare a casa della sorella che, “Grazie a Dio”, riesce ad accumulare acqua durante la notte nei serbatoi esterni, i “cilindri” neri visibili sui tetti di ogni casa palestinese. I serbatoi dell’abitazione di Umm Khalil sono vuoti come lo sono quelli di quasi tutte le famiglie di Shuffat, unico campo profughi di Gerusalemme Est e una delle località palestinesi alla periferia della Città Santa che da oltre un mese hanno pochissima acqua. Una condizione che si è fatta insopportabile con l’arrivo della primavera e l’aumento delle temperature. “Gli israeliani ci lasciano in questo stato, sino ad oggi non hanno fatto nulla di concreto per aiutarci. Siamo costretti a comprare l’acqua in bottiglia per bere”, protesta Jamal al Malki, proprietario di un negozietto di alimentari tra le povere case del campo per rifugiati, ricordando che la stessa Corte Suprema israeliana ha dato 60 giorni di tempo alle autorità per risolvere il problema. Sino ad oggi però è cambiato ben poco.

I responsabili israeliani si difendono, affermano che la mancanza di acqua corrente è il risultato di una infrastruttura “decrepita” che non riesce più a soddisfare i bisogni crescenti di una popolazione in rapido aumento. Una giustificazione che, allo stesso tempo, genera un interrogativo: perché negli anni passati non sono stati fatti i lavori per lo sviluppo della rete di distribuzione nella zona di Shuffat rimasta a secco? E non si può fare a meno di notare che la “crisi idrica” non si registra nella parte ovest, ebraica, di Gerusalemme. Nella città più contesa della storia dell’umanità, sulla quale Israele ha imposto unilateralmente la sua sovranità (contro il diritto e le risoluzioni internazionali) la risposta a questo interrogativo non può essere solo tecnica, ma ha anche un importante contenuto politico. I palestinesi del campo profughi di Shuffat ufficialmente sono parte del comune di Gerusalemme ma vivono sul versante cisgiordano del Muro costruito da Israele intorno alla città. Il fatto che il campo sia stato separato da Gerusalemme indica, in modo inequivocabile, che, nei progetti a lungo termine di Israele, quei palestinesi non saranno più residenti della “capitale”. Già ora gli abitanti del campo devono superare un posto di blocco per uscire e accedere al resto della città. A Shuffat i servizi comunali sono quasi inesistenti e a garantire un minimo di vivibilità è l’intervento dell’Unrwa (Onu) e delle associazioni caritatevoli. Questa situazione si riscontra anche in altri sobborghi palestinesi che Israele cederebbe subito e molto volentieri all’Autorità nazionale di Abu Mazen, se esistessero le condizioni politiche per farlo. Il quotidiano Haaretz un paio d’anni fa rivelò che le strutture pubbliche israeliane offrono sempre meno, quasi nulla, a quei palestinesi (circa 50 mila) con residenza ufficiale a Gerusalemme ma che vivono fuori dai confini municipali. Persone che in futuro non saranno parte della popolazione della città e per questo trascurate (a dir poco) dagli occupanti israeliani e che, allo stesso tempo, non possono essere assistite dall’Anp perchè ancora parte di Gerusalemme.

“Stiamo parlando di una zona che è stata tagliata fuori dal resto della città – spiega Ronit Sela, portavoce dell’Associazione per i Diritti Civili in Israele, che ha avviato la battaglia legale per conto dei residenti Shuffat – una zona che è stata trascurata, anche prima della costruzione del Muro, lasciata senza infrastrutture mentre il numero di persone continuava a crescere. Ora l’ intero sistema idrico crolla e nessuno si assume la responsabilità”. Eli Cohen, vice direttore dell’azienda idrica israeliana HaGihon, si affanna a spiegare che la rete di distribuzione in origine doveva servire circa 15.000 persone e non le 60.000-80.000 di oggi. E accusa gli abitanti di Shuffat di non pagare l’acqua che consumano. La Water Authority israeliana nega ogni responsabilità e punta l’indice contro la HaGihon. Ma la “replica” a tutte queste giustificazioni è solo a poche centinaia di metri dal campo profughi. La vicina colonia ebraica di Pisgat Zeev non ha problemi con l’acqua, di alcun tipo. così come tutti gli altri insediamenti colonici.