«Non un muro di cemento ma un muro di deterrenza, ecco cosa serve per sconfiggere i terroristi e chi incita alla violenza». Così tuonava ieri Naftali Bennett, ministro dell’istruzione ed esponente di punta del ultranazionalismo religioso. Mentre Bennett si affannava a far conoscere il suo punto di vista, tra i più importanti nel governo, coloni israeliani di “Ataret Cohanim”, scortati dalla polizia, entravano nel quartiere di Silwan, ai piedi della città vecchia, e occupavano due case della famiglia Abu Nab, sostenendo che erano di proprietà di ebrei prima del 1948. Proteste, lacrime di dolore, urla di bambini impauriti non sono servite a nulla. In pochi minuti nove palestinesi sono stati sbattuti fuori dalle loro abitazioni. Forse è questa la “deterrenza” alla quale fa riferimento il ministro Bennett quando pensa a come «rispondere al terrorismo». E dietro di lui ieri si sono schierati in tanti. Tutti uniti nella protesta contro la decisione presa tre giorni fa dal premier Netanyahu e dal ministro della sicurezza Gilad Erdan di alzare muri tra le colonie israeliane costruite a Gerusalemme Est e i quartieri palestinesi.

 

Protesta scattata non per tutelare la popolazione araba. Piuttosto per evitare che i muri pensati da Netanyahu e Erdan finiscano per mostrare nero su bianco quello che è noto a tutti. Gerusalemme era e rimane una città non unita e gli abitanti palestinesi non accettano l’occupazione, anche se per mangiare e lavorare devono integrarsi nel sistema economico israeliano. E così la barriera che domenica scorreva e, blocco dopo blocco, si allungava separando il sobborgo palestinese di Jabel Mukaber dalla colonia di Armon HaNetsiv, non si estenderà ad altre aree. Netanyahu ieri ha bloccato il provvedimento. «La barriera non ha valore politico – assicurava due giorni fa Emanuel Nahshon, portavoce del ministero degli esteri – è solo uno degli aspetti in più delle nostre misure di sicurezza, per impedire il lancio di bottiglie incendiarie, fuochi d’artificio sparati ad altezza d’uomo e lanci di sassi sulle auto». Invece per gran parte del mondo politico israeliano queste barriere “provvisorie” sono un problema serio, così come i blocchi stradali allestiti tra la Gerusalemme ebraica (ovest) e quella araba, in qualsiasi punto dove israeliani e palestinesi entrano o potrebbero entrare in contatto. E a Giaffa Street, che attraversa il centro ebraico della città, gli israeliani sembrano privilegiare più l’aspetto politico che la sicurezza che pure invocano ogni momento. «Per me era un grave errore dividere alzare quelle barriere. Gerusalemme è solo nostra e deve rimanere unita sotto il nostro controllo», dice Daniel, 21 anni, seduto dietro un banchetto dove raccoglie donazioni per i soldati israeliani. Lior, proprietario di un negozio dove si vendono macchine per il caffè, si dice in linea con Naftali Bennett. «Non servono muri. Dobbiamo usare la forza con gli arabi (i palestinesi, ndr) se vogliamo fermare il terrorismo – proclama –, dobbiamo conservare le nostre abitudini e muoverci ovunque. Alla fine gli arabi capiranno che non avranno neppure centimetro di Gerusalemme e che attaccarci non serve a nulla». Una signora sulla sessantina in attesa del tram alla fermata di Davidka, invece i muri li vuole e ben alti. «Dipendesse da me i palestinesi li terrei chiusi tutti lì dove vivono e poi li manderei da (presidente dell’Anp) Abu Mazen», afferma senza scomporsi.

 

Meir Margalit, tra i più noti attivisti di Gerusalemme e uno dei fondatori della Ong israeliana “Icahd” (contro la demolizione delle case palestinesi a Gerusalemme), scuote la testa quando gli riferiamo le considerazioni fatte dalle persone incontrate in Giaffa Street. «Anche quelle persone come tanti altri israeliani non capiscono che lo status quo non può durare e che quanto accade è il risultato delle politiche attuate negli anni passati – spiega – forse pensano che il lieve miglioramento delle condizioni economiche di un certo numero di famiglie palestinesi, grazie al lavoro in Israele, eliminerà il rifiuto dell’occupazione (della zona araba della città, ndr). Non comprendono che i palestinesi più giovani non rinunciano ad affermare la loro identità e non si accontentano di trovare un lavoro. Vogliono dignità». Per il professore Hillel Cohen, docente all’Università Ebraica di Gerusalemme, «sono passati quasi 50 anni dal 1967 e la soluzione era e resta la stessa. Gerusalemme deve essere la capitale anche dello Stato di Palestina. Ogni altra opzione serve solo a prolungare il conflitto».

 

Ieri si è parlato parecchio di un’altra città, Bersheeva, dove domenica sera un beduino di Hura ha ucciso un soldato e ferito una dozzina di israeliani nella stazione centrale dei bus, prima di essere ucciso a sua volta dalle guardie di sicurezza. Grande l’attenzione della politica e dei media locali per l’accaduto e per il coinvolgimento di un cittadino israeliano. Avrebbe meritato più riguardi il richiedente asilo eritreo Haftom Zarhum, scambiato per un palestinese dalla folla, ferito e percosso duramente come mostrano i filmati che girano in rete. Zarhum è morto per le ferite subite. Le autorità israeliane condannano il linciaggio e assicurano che saranno trovati i responsabili. Migranti e richiedenti asilo non si fanno illusioni. E preferiscono pregare e ricordare il loro compagno, come hanno ieri nel centro di detenzione per “clandestini” di Holot. Da Gaza intanto il movimento Hamas minaccia la ripresa degli attentati kamikaze in Israele e auspica una Intifada senza sosta. «Questa intifada continuerà fino alla liberazione di Gerusalemme, della Cisgiordania e della intera Palestina – ha detto l’ex vice ministro degli esteri Fathi Hammad – sosterremo l’Intifada di Gerusalemme col nostro lavoro e col nostro sangue».