Nessuno può accusare di scarso impegno il ministro israeliano dell’istruzione Naftali Bennett. Un impegno che però sembra indirizzarsi più verso obiettivi politici che a favore dell’apprendimento degli studenti. Alla fine del 2015 Bennett aveva vietato gli interventi nelle scuole ai rappresentanti di “Breaking the Silence”, l’Ong dei soldati israeliani che rompono il silenzio su crimini commessi nei Territori occupati. A inizio del nuovo anno ha proibito l’uso nelle scuole superiori del romanzo di Dorit Rabinyan “Borderlife” che racconta la storia d’amore tra una ebrea e un palestinese. Ora, riferiva ieri in prima pagina il quotidiano Haaretz, il ministero dell’istruzione prepara un piano che prevede fondi extra solo per le scuole arabe di Gerusalemme Est che adotteranno il programma israeliano al posto di quello palestinese.

 

Quando nel 1995 furono firmati gli Accordi di Oslo II, ai palestinesi di Gerusalemme Est, che non sono (tranne una esigua minoranza) cittadini israeliani, fu riconosciuto il diritto di adottare il programma del ministero dell’istruzione della neonata Autorità nazionale palestinese al posto di quello della Giordania. Delle 180 scuole palestinesi soltanto otto hanno scelto, in questi ultimi venti anni, il programma israeliano e solo due di queste sono istituti pubblici. Un dato che conferma il rifiuto del controllo israeliano della zona araba di Gerusalemme, anche in materia di istruzione, da parte degli oltre 300mila palestinesi nella Città Santa. «Israele vorrebbe trasformare i palestinesi in sionisti, convincerli ad abbracciare la narrazione israeliana di quanto è accaduto in questa terra» spiega al manifesto Diana Buttu, una esperta di diritto internazionale «i palestinesi però intendono rimanere quello che sono e continuare a far parte del mondo arabo». Per questa ragione, aggiunge Buttu, «anche questo tentativo è destinato a non avere successo». Allo stesso tempo la condizione delle scuole arabe a Gerusalemme Est è grave: il numero degli studenti aumenta con il passare degli anni e non ci sono aule sufficienti. Molte scuole pubbliche operano in edifici spesso fatiscenti che necessitano urgenti lavori di ristrutturazione, scarseggiano attrezzature, computer e materiali didattici. Qualche dirigente scolastico perciò potrebbe essere tentato ad adottare il programma israeliano in cambio dei fondi offerti dal ministero. «A mio avviso è un ricatto, soldi in cambio di una rinuncia» afferma Diana Buttu «i palestinesi sotto occupazione hanno diritto ai quei fondi senza dover rinunciare alla loro identità, alla loro cultura, al loro programma scolastico in linea con il resto del mondo arabo. Lo dice il diritto internazionale che Israele è chiamato a rispettare. Per questo mi auguro che questo passo del ministero dell’istruzione israeliano venga subito condannato dalle istituzioni internazionali». Lo sdegno è forte tra i palestinesi di Gerusalemme. Le scuole arabe, affermano, non accetteranno l’offerta del ministero israeliano. Anche perchè i genitori non lo permetterebbero, di fronte a libri di testo e a un programma scolastico che tendono a negare quasi del tutto storia e cultura palestinese.

 

Nel corso degli anni i governi israeliani si sono spesso lamentati del contenuto dei libri usati nelle scuole palestinesi che non riconoscebbero pienamente lo Stato ebraico e «istigherebbero alla violenza». A loro volta i testi inclusi nel programma israeliano offrono una narrazione totalmente anti-araba, che nega radici e storia dei palestinesi nella loro terra. Lo spiega bene la docente israeliana Nurit Peled Elhanann nel suo libro “La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione” (2012, edito in Italia dal Gruppo Abele). Gli arabi, scrive Peled Elhanann, sono rappresentati come profughi in strade e luoghi senza nome. «Nessuno dei libri», spiega la docente, «contiene fotografie di esseri umani palestinesi e tutti li rappresentano in icone razziste o immagini classificatorie avvilenti come terroristi, rifugiati o contadini primitivi». Raramente si parla di “Palestina” o “Palestinesi” piuttosto si fa riferimento a “non ebrei”, “arabi”, o al “problema palestinese” descritto il più delle volte come un problema demografico.

 

Secondo il ministero dell’istruzione israeliano i palestinesi da un lato protestano e dall’altro, in numero crescente, intenderebbero seguire il programma scolastico israeliano. Riferisce che l’anno scorso 1400 studenti arabi hanno scelto il “Te’udat Bagrut”, ossia il diploma di maturità israeliano e non quello palestinese (Tawjihi). Quest’anno se ne prevedono 2.200. Ma sono soltanto il 5% dell’intera popolazione scolastica palestinese.