Gerusalemme torna ad essere il centro del conflitto mediorientale a dispetto dei tanti analisti e direttori di giornali che in questi anni hanno messo ai margini la questione israelo-palestinese. Dopo la tensione e il sangue di queste ultime settimane nella città santa, ieri lo scontro ha raggiunto un nuovo picco poco dopo le 7 ora locale, quando due palestinesi di Jabal al Mukaber sono entrati in un istituto religioso di Har Nof e hanno ucciso a colpi d’arma da fuoco e d’ascia quattro israeliani. Le vittime, tutti rabbini – Moshe Twersky, Aryeh Kupinsky, Kalman Zeev Levine e Avraham Shmuel Goldberg (i primi tre cittadini statunitensi, il quarto britannico) – stavano pregando assieme ad altre decine di fedeli ebrei in un complesso religioso nel rione ortodosso sefardita di Har Nof, alle porte di Gerusalemme. L’attacco, rivendicato sui social media dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), ha generato rabbia e sdegno tra gli israeliani, con immediati riflessi nelle strade dove la tensione è cresciuta con il passare delle ore. Un palestinese ha denunciato di essere stato aggredito e accoltellato ad una gamba da tre israeliani.

A poco sono servite le parole del presidente palestinese Abu Mazen che ha condannato «l’uccisione dei fedeli ebrei a Gerusalemme e di altri civili ovunque essi siano». Il premier israeliano Netanyahu ha preso di mira proprio lui ed Hamas. L’attentato, a suo avviso, «è stato una conseguenza diretta del loro incitamento». Un incitamento, ha aggiunto, «che la comunità internazionale ha irresponsabilmente ignorato». Netanyahu ha poi convocato una riunione d’emergenza con i responsabili alla sicurezza, avvertendo che Israele reagirà duramente. Ad essere colpite per prime sono state le famiglie degli attentatori, i cugini Ghassan e Oday Abu Jamal. La polizia ha arrestato 12 parenti dei due palestinesi. La scorsa notte era attesa la demolizione delle loro abitazioni in un clima esplosivo in cui per ore si sono scontrati dozzine di giovani e la polizia antisommossa israeliana. Nove i contusi, una dozzina gli arrestati.

Har Nof è un sobborgo di Gerusalemme dove vivono in prevalenza ebrei ortodossi. I suoi palazzi ospitano numerosi istituti religiosi e nelle sue strade si incontrano studenti ed insegnanti dei collegi rabbinici. L’attacco è avvenuto mentre si recitavano le preghiere nella sinagoga Kehilat Bnei Torah. Uno degli attentatori, ha riferito un testimone, è entrato urlando e ha cominciato a sparare colpi con una pistola. Pochi secondi dopo è entrato il secondo brandendo un coltello e una ascia e ha iniziato a colpire chi aveva davanti. L’attacco è andato avanti per alcuni minuti sino a quando non è intervenuta la polizia che ha circondato la sinagoga e ha ucciso i due palestinesi. Altri testimoni hanno raccontato che alcune vittime avrebbero avuto parte degli arti amputati durante l’assalto. Le televisioni locali hanno mandato in onda per tutto il giorno le immagini con le quattro vittime ancora avvolte nel proprio talled, il manto rituale delle preghiere ebraiche. E per quasi tutto il giorno la folla si è accalcata fuori dalla sinagoga. Molti hanno chiesto con insistenza le dimissioni del ministro della sicurezza Yitzhak Aharonovich. Altri, infuriati, hanno invocato vendetta al grido di «morte agli arabi».

La condanna di Abu Mazen non basta a Netanyahu. Il premier israeliano, ha bisogno di far sentire quella “mano pesante” che ha minacciato di usare subito dopo l’attentato. Durante il discorso alla nazione in diretta tv che ha pronunciato ieri sera al termine della riunione del gabinetto di sicurezza, il primo ministro ha sottolineato che quella che lui ed il suo governo stanno combattendo è una battaglia per Gerusalemme «la nostra capitale eterna…quello che ci occorre è la coesione nazionale». Un riferimento alle divisioni nel suo governo, che vacilla in questi giorni non solo per l’economia ma anche per il nuovo progetto di legge volto a dichiarare Israele «Stato della nazione ebraica». I ministri in apparenza più moderati, come quella della giustizia Tzipi Livni, mal digeriscono l’approccio sempre più conflittuale del premier nei confronti di Abu Mazen, accusato ormai quotidianamente di fomentare la violenza con i suoi appelli alla difesa della Spianata delle moschee. Una tesi peraltro smentita ieri proprio dal capo dello Shin Bet (servizio sicurezza interna). Abu Mazen non fomenta il terrorismo, «nemmeno sottobanco, non è nel suo interesse», ha detto Yoram Cohen intervenendo ai lavori della Commissione esteri e difesa della Knesset. Cohen ha anche ribadito che i blitz degli ultranazionalisti israeliani sulla Spianata delle moschee di Gerusalemme infiammano il clima e innescano forti tensioni.

Dove si indirizzerà la reazione di Netanyahu, deciso a soddisfare le pressioni dei ministri più radicali per una risposta durissima contro i palestinesi, era uno degli interrogativi che tanti si ponevano ieri. Nessuno crede che la “mano pesante” del premier si limiterà alle demolizioni delle case degli attentatori o alla probabile creazione di posti di blocco della polizia all’interno di Gerusalemme Est, ossia agli ingressi di alcuni quartieri palestinesi come Jabal Mukhaber, Bet Hanina, Issawiya e altri ancora. Oltre a prendere di mira l’Anp è possibile che la reazione si indirizzi anche verso la Striscia di Gaza, dove dal 26 agosto è in vigore un cessate il fuoco precario al quale non sono mai seguiti, contro gli accordi presi, nuovi negoziati israelo-palestinesi. Ieri, ne ha parlato anche Netanyahu nel suo discorso, Hamas si è felicitato per l’attentato a Gerusalemme e i suoi attivisti (e del Fplp) hanno distribuito dolci e caramelle nelle strade. Secondo il portavoce del movimento Mushir al-Masri «si è trattato di una vendetta eroica e rapida per l’esecuzione di Yusuf al-Rumani», il conducente di autobus palestinese trovato domenica sera morto a Gerusalemme e che per la famiglia e i palestinesi è stato torturato e ucciso dalla estremisti israeliani.