La xilografia, l’incisione su legno, come possibilità di espressione ‘ulteriore’, lega i tre protagonisti di una mostra strana e penetrante al MASI di Lugano: Gertsch – Gauguin – Munch Cut in Wood (a cura di Franz Gertsch e Tobia Bezzola; catalogo, ottimamente stampato, Kehrer – MASILugano).
Lo spazioso vano bianco centrale è riservato alle gigantesche xilografie (ritratti e paesaggi) con cui il bernese Franz Gertsch (classe 1930) si è sottratto, a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, all’imperativo della pittura che allora perseguiva, immagini monumentali di tipo realista realizzate da fotografie proiettate. Come lo stesso artista confessa in una conversazione molto tecnica con Gerd Woll, già curatrice del Museo Munch di Oslo, queste immagini, per le quali ha sempre rifiutato la categoria di «fotorealismo» (la Betty di Gerhard Richter è fotorealismo? no), gli apparvero a un certo punto troppo ingombranti: se ne accorge, in via definitiva, nel corso della sua personale alla Kunsthalle di Basilea, 1986, dedicata a una serie di primi piani femminili. Di qui la decisione di intraprendere una via che gli consentisse un’espressione più sottile e sfumata, e così Gertsch approccia le magiche difficoltà della xilografia, una tecnica di tradizione illustre, soprattutto in ambito tedesco, dove nel primo Novecento il recupero creativo dei legni dei ‘primitivi’, Dürer e gli altri, aveva dato spunto alle brusche invenzioni dei pittori della Brücke, Kirchner eccetera.
Parlando delle xilografie di Kirchner, Gertsch fa riferimento a un modo aspro e rude che ha per scopo di ottenere «una semplificazione e una drammatizzazione dell’immagine». Giustamente gli contrappone le esperienze di Gauguin e Munch, i compagni di strada da lui scelti, i quali videro piuttosto, nei blocchi di legno, opportunità inusitate di raffinamento. «Gauguin ha lavorato con linee sottilissime, ma anche con effetti velati, sfumati. Per lui è importante non solo la linea, ma anche la superficie». Qui è contenuto, tutto intero, il programma espressivo di Gertsch nell’universo dell’incisione. Nonostante l’enorme differenza fra i tre, egli porta alle estreme conseguenze, attraverso una sofisticazione del mezzo che quasi ne rovescia le connotazioni storiche, l’approccio generale di cui gli altri due, ciascuno secondo il proprio linguaggio, furono i primi interpreti.
Per Gertsch la base di partenza, come nei dipinti, è fotografica, e le fotografie sono sempre sue: le attinge dal suo enorme archivio, si lascia catturare da uno scatto, immagine con cui dovrà convivere per un anno intero, che è il tempo medio richiesto da una di queste xilografie. Il supporto realizzativo, su cui proietta la fotografia, è costituito da un assemblaggio di tavole di legno di tiglio. I grandi fogli sono stampati su carta giapponese, spessa, resistente, trovata per Gertsch, nella bottega di un cartaio di Kyoto, dal suo amico fotografo Balthasar Burkhard (recente una sua mostra al MASI). Quel che sorprende, oltre all’enormità delle misure, è il barbaglio luminoso della superficie, frutto di un gioco sottilissimo di gradazioni tonali: non si crederebbe che possa essere stato ottenuto con la sgorbia. Come ha fatto? Che pazzia è questa?
Un maniacale lavoro di scavo di punti sulla matrice: questi minuscoli punti definiscono le zone di luce, ora più ora meno intense, da cui ha preso corpo l’immagine. In un primo tempo – Natascha IV, 1988 – Gertsch ha utilizzato più matrici, ma poi si è risolto a ricorrere a una sola. Gli è stato chiaro che «fondamentalmente la prima tavola dice già tutto»: bravo, ne sono venuti fuori capolavori di colore leggero e smorzato, come, fra i ritratti, Dominique, 1989, con la sua aria di solenne fantasma color miele, vólto che emerge, dove il residuo della definizione fotografica è conteso dall’opaca luminescenza della tecnica a puntini – l’effetto ricorda remotamente i fumosi camaïeux di Eugène Carrière, compreso certo modo arabescato, nouveau, di trattamento della capigliatura. Ogni stampa, magari variata di colore, è un unicum: in qualche misura, dice Gertsch, un monotipo.
Questa scelta radicalizza l’idea dell’incisione come opera autonoma e intrisa d’aura. Gertsch si sente in questo senso debitore sia di Gauguin sia di Munch, le cui xilografie operano uno scarto ben deciso rispetto ai dipinti. Il colore, in particolare, che nelle tele di entrambi ha la purezza solare che conosciamo, subisce un raffinamento indicativo di valori, fin spirituali, di altro tipo. Tutti e due amavano dare rilievo espressivo all’incidente: scoprirono così le qualità decorative delle venature del legno, che in alcune xilografie di Munch prendono corpo fino a divenire – Il bacio IV, 1902 – trama complessiva. Realizzati avendo spesso a modello i dipinti, di cui distillano l’angoscia come un veleno a più lungo rilascio, i fogli policromi del norvegese furono concepiti, da un certo momento, secondo un sistema di sintesi da lui inventato, che permetteva di stampare più colori da un unico blocco. In Gauguin, più che in Munch, è decisivo, esteticamente, l’impegno personale nel processo di stampa, senza ricorso a professionisti. Nella Suite Vollard, la serie realizzata nel secondo soggiorno a Tahiti, che ha inizio nel 1895, il senso di rusticità aborigena inseguito dall’artista è dato in gran parte dalle imperfezioni della resa di stampa. Gertsch, che parla da vero conoscitore, sottolinea la fragranza dei fogli di Gauguin da lui personalmente stampati: «le differenze fra le singole tirature sono enormi». Anche l’artista bernese è stato tentato di stampare in proprio, ma poi si è affidato a un notevole tecnico della litografia, Nick Hausmann, che ha sperimentato insieme a lui, per la prima volta, e nel modo estremo che si è detto, il procedimento da legno – legno ‘di filo’, inciso con la sgorbia, e non, come nel caso di Gauguin, legno ‘di testa’, con il bulino.
Gauguin e Munch figurano in due sale ciascuno, laterali, intime: di estrema qualità, sembra, le tirature, provenienti da un’unica collezione, facente capo alla Galleri K di Oslo, che tratta pure l’opera di Gertsch. Nello spazio centrale i Paesaggi del bernese risaltano, rispetto ai Ritratti, per il loro larvato spirito romantico, che sprigiona da luoghi di natura fotografati nei pressi della sua residenza perché – egli cita, altro bernese illustre, Harald Szeemann – «il pittore non deve fare altro che uscire di casa per trovare il mondo intero». ‘Romantico’ è dizione che non piace a Gertsch, eppure il trittico con le acque del fiume Schwarzwasser, stampato in grigio-blu ferrigno, ricco di morbide nuances date dalle trasparenze mobili delle dinamiche di superficie, ha il potere incantatorio di tutta una tradizione, ottocentesca, tedesca, che ha cercato nella morfologia degli elementi naturali una possibilità di conoscenza ulteriore, o, con Rosenblum, «un’astrazione trascendentale». Ci si può anche perdere, in queste acque di Gertsch: ci si sarebbe gettato volentieri von Kleist.
Davanti a Rüschegg , sentiero nel bosco, che è il primo paesaggio dell’artista (1989), stupiamo di verificare come la sgorbia abbia potuto ottundere sistematicamente la mimesi fotografica, creare un diaframma altamente culturale, in cui confluiscono le voci della tradizione: l’accumulo dei dettagli, che restano dettagli, viene ad alonarsi di sedimenti soggettivistici, quel che di questi paesaggi può aver interessato Thomas Struth, secondo la testimonianza dello stesso Gertsch, nell’intridere del suo occhio la vegetazione semioscura di giungle e foreste nella serie fotografica del 1999.
Quando le xilografie rappresentano, su scala gigantesca, solo particolari di natura – foglie, erba, Pestwurz «Ausblich» (2005), Gräser «Ausblick» (2007): le opere non sono in mostra – l’occhio è meno contemplativo e più ‘scientifico’, singolare scienza, però, che annaspa nell’oscurità di un sistema vivente sbarrato al sapere. Maria, 2001, è un ciclopico nudo turchese, in sonno, nel sottobosco, che il cerebrale lavorío luce-ombra rileva quel tanto da fornire un’immagine spettrale, fossile, entro l’abisso degli elementi.