Con estremo realismo, la questione fondamentale con la quale il Partito socialdemocratico tedesco (Spd) deve fare i conti è la guida del governo federale. Se vuole tornare ad esprimere il cancelliere, deve necessariamente formare un’alleanza con i Verdi e la Linke. Altrimenti, stanti gli attuali rapporti di forza, può solo affidarsi alla speranza che compaia una nuova leadership carismatica in grado di squarciare il velo di confortevole torpore che il rassicurante «centrismo» di Angela Merkel ha posato in questi anni sul Paese. Ma confidare nell’avvento di un’improbabile figura provvidenziale anti-Merkel – il cui identikit corrisponderebbe alla governatrice del Nordreno-Westfalia, Hannelore Kraft – è il gesto disperato di chi non ha più santi a cui votarsi. Molto più razionale sarebbe provare l’altra strada. 

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Una parte della Spd è convinta da tempo che così dovrebbe essere: la corrente di sinistra organizzata nel «Forum DL21» sta intessendo una significativa trama di relazioni con esponenti delle altre due forze. Un esempio: il prossimo 22 settembre ha invitato a discutere il vicesegretario della Linke e la responsabile politica fiscale dei Verdi in un dibattito pubblico a Berlino sulla «crisi europea irrisolta». Fatto ancora più rilevante: alla base c’è un documento comune, stilato da esponenti dei tre partiti riuniti in un think tank trasversale («Institut Solidarische Moderne – Istituto modernità solidale»). Prove tecniche di unità a sinistra a partire da analisi condivise: con i tempi che corrono, non è poco.

A questo lavorio «laterale», però, non fa riscontro un’azione dei vertici del partito, che fingono di non vedere il rischio di trasformare la Spd in una ruota di scorta dei democristiani della Cdu/Csu. Il paradosso è che l’attuale socialdemocrazia è «più a sinistra» di quella di Gerhard Schröder, artefice delle «riforme» neoliberali della cosiddetta Agenda 2010: lo dimostrano le correzioni di linea su pensioni, salario minimo e fisco, che sono valse il riavvicinamento del sindacato. Eppure, le potenzialità del nuovo corso sono represse dal rifiuto di considerare l’opzione dell’alleanza a sinistra, preferendo – nel sacro nome della «responsabilità» – la grosse Koalition. In patria come in Europa, dove salta agli occhi uno scarto analogo fra intenzioni e penose scelte concrete.

Quello della Turingia, pertanto, è un passaggio-chiave. Il piccolo Land andato al voto domenica scorsa potrebbe essere il teatro di un esperimento inedito: un governo dei progressisti guidato da un uomo del partito più a sinistra. Viatico di una possibile collaborazione sul piano federale. La decisione è nelle mani dei socialdemocratici, che possono scegliere in alternativa di continuare ad amministrare con la Cdu, prima forza della regione. Fra le molte voci che si augurano una positiva novità, l’editorialista dell’autorevole quotidiano social-liberale Sueddeutsche Zeitung, Heribert Prantl: «La Spd deve capire che la Linke non è un’accolita di stalinisti, ma la sua ala sinistra», è il succo della sua tesi. A conclusioni simili giunge la prima firma politica della progressista die Taz, Stefan Reinecke.

Proprio di fronte alla pericolosa ascesa della destra nazionalconservatrice di Alternative für Deutschland e all’inquietante aumento delle astensioni (domenica scorsa ha votato un elettore su due), ai socialdemocratici servirebbe ritrovare il coraggio e l’ampiezza di vedute del Willy Brandt che, nella cupa Germania ovest di fine anni Sessanta, decise di «osare più democrazia», alleandosi con i liberali (allora più a sinistra) e mandando per la prima volta dal dopoguerra i democristiani all’opposizione. La Ostpolitik che ne derivò fu una svolta dirompente nelle relazioni internazionali ingessate dalla guerra fredda. E proprio di una svolta di quella portata avremmo bisogno ora, per liberare l’Europa dall’austerità neoliberista.