Si dice che la somma di due debolezze non produca una forza ma una debolezza maggiore.

La formula può non avere validità universale ma al tentativo di ripristinare in Germania la Grande coalizione tra i socialdemocratici della Spd e i democristiani della Cdu\Csu si attaglia perfettamente. Su quale esito avrà questa trattativa è inutile azzardarsi a pronosticare. La faccenda si annuncia lunga, tortuosa e assolutamente incerta.

L’evidente dato di partenza è che entrambi i due grandi partiti di massa hanno subito una formidabile emorragia di voti. Il nuovo millennio ha visto ridursi della metà il numero degli elettori socialdemocratici, cosicché il vecchio Oskar Lafontaine ha gioco facile nel sentenziare: «Il problema è assai semplice, se una politica allontana gli elettori, allora bisogna cambiare politica».

Già, ma come? Un partito è più la sua storia recente (si intende quella di un paio di decenni) che quella remota.

L’attuale Spd è ben più vicina alle riforme liberiste di Gerhard Schröder che a Willy Brandt, per non parlare di una più combattiva antichità socialista.

Questo vale tanto per la soggettività di funzionari e apparati quanto per l’immagine che perviene agli elettori.

L’essere il più antico partito socialdemocratico d’Europa non procura più alcun vantaggio, semmai il contrario. La Spd si identifica insomma con quella pratica di governo e di solerte garanzia della stabilità che ha segnato tutta la sua storia più recente, alienandole la simpatia degli elettori. Il problema appare dunque senza soluzione.

Le affinità tra i due grandi partiti popolari sono andate accentuandosi negli anni sotto l’abile guida governativa di Angela Merkel, rendendo, soprattutto per la Spd (il partner minore), sempre più indispensabile marcare le differenze.

Ma anche la Cdu, e in particolar modo la Csu bavarese, ha perso molti voti a favore della destra, con la conseguente propensione a ripristinare un profilo più nettamente conservatore.

Ecco dunque il paradosso della Grande coalizione: dovrebbero darle vita due partiti che vivono la medesima necessità politica di distanziarsi nettamente l’uno dall’altro, sottolineando caratteri reciprocamente alternativi.

In queste condizioni il compromesso è un’impresa quasi disperata. Nonostante il totem della stabilità politica, della responsabilità verso il paese, e le confortevoli abitudini degli apparati all’amministrazione dell’esistente.

Per rovesciare una celebre formula del lessico politico italiano ai tempi della prima repubblica, Spd e Cdu\Csu dovrebbero disporsi su un piano di «divergenze parallele». Se non fosse che in Germania la distinzione tra geometria e commedia non è stata mai accantonata.

Martin Schulz tenta la fuga in avanti verso gli «Stati Uniti d’Europa» che dovrebbero prender forma, almeno nei tratti più essenziali, entro il 2025. Dopodomani. E, subito, c’è chi gli rimprovera di voler abbandonare il concreto pragmatismo della Socialdemocrazia a favore di un «astratto e vetusto internazionalismo» inutilmente visionario.

Ma anche proiettando ragionevolmente la politica tedesca sulla dimensione europea (di sponda con Macron) non si sfugge in nessun modo al solco sempre più profondo che divide le prospettive politiche dei due grandi partiti chiamati a coalizzarsi. Schulz non potrebbe rinunciare a una visibile coloritura sociale dell’Unione europea, così come il fronte conservatore a una riproposizione del rigore in chiave di «priorità nazionale». Una bandiera sventolata tanto dai liberali della Fdp quanto dai nazionalisti di Afd premiati alle elezioni di settembre e in concorrenza fra loro.

Se si volesse tratteggiare lo stato d’animo che ha alimentato questa tendenza e condiziona ora il partito di Merkel e dei suoi alleati bavaresi è quella nota sindrome che spinge i ricchi a vedersi insidiati da scrocconi, postulanti e profittatori d’ogni risma.

La Repubblica federale è indubbiamente uno dei paesi più ricchi del mondo e anche i numerosi cittadini che da questa ricchezza sono in diversa misura esclusi se ne sentono parte, non di rado imputando questa loro condizione sfavorita ai suddetti profittatori europei o immigrati.

È questa percezione, ben più significativa del campanile e del folklore nazionalista che appassiona l’estrema destra e i paladini dell’Occidente, che dovrebbe essere smontata. Non può esserlo, tuttavia, con espedienti retorici, modeste misure di correzione sociale o scontati proclami antifascisti.

Servirebbe rimettere radicalmente in questione la politica condotta dalla Spd nell’ultimo ventennio.

Una prospettiva che non rientra in nessun modo nel quadro di una riedizione della Grosse Koalition e probabilmente neanche nell’attuale soggettività politica della Socialdemocrazia, la cui crisi non sembra ancora avere toccato il fondo, come è invece accaduto in altri paesi europei.

La Germania resta bloccata e l’Europa di conseguenza.