In ordine di sparizione (per non parlare dei semiestinti socialisti greci e francesi) il nostro Partito democratico con il suo 18 per cento è decisamente in miglior posizione della più antica e solida socialdemocrazia del Vecchio continente: quella tedesca che gli ultimi sondaggi accreditavano del 15 per cento. Ma che oggi si insedia ancora una volta al governo con Angela Merkel giunta alla sua quarta cancelleria. A 171 giorni dalle elezioni che avevano chiaramente certificato la bocciatura della Grande coalizione e il declino dei grandi partiti di massa che la animavano, questi ultimi si riaffermano, nonostante tutto, come il volto più realistico e affidabile della stabilità tedesca. Restituendo al paese un governo tutto sommato classico, anche se con importante presenza femminile, fatto di amministratori e politici ben rodati prevedibili e rassicuranti. Nessuna figura, insomma, di provenienza un po’ meno scontata come avrebbe potuto essere quella di Martin Schulz. Il decisivo ministero delle finanze passato dal leggendario falco Wolfgang Schaeuble all’ex sindaco di Amburgo Scholz, non si discosterà molto, malgrado il disappunto della destra, da quel tempio dell’austerità e dell’accumulazione che è stato negli anni della grande crisi. Tutti accontentati, dunque, nel segno di una continuità dichiarata senza alternative. Non che la Germania non sia stata colpita da quelle stesse metamorfosi degli assetti produttivi e dei processi di accumulazione che hanno investito tutte le economie di mercato dell’Occidente, rimescolando pesi politici e figure sociali, ma in forma più graduale e controllata, con margini che hanno consentito di compensare in qualche modo la crescita esponenziale delle diseguaglianze.

La forza economica e finanziaria, la competitività guadagnata a scapito dei partner europei, dei salari interni e delle condizioni di lavoro fa la differenza. E permette a Cdu, Csu ed Spd di mantenersi in controtendenza rispetto alla crisi generale delle democrazie rappresentative, conservando i numeri, sia pure risicati, che permettono la riedizione di una “larga intesa”. Sebbene la tendenza sia la medesima cui abbiamo assistito in Italia e cioè il declino delle forze “borghesi”, l’una liberal-conservatrice, l’altra liberal-riformista, che occupavano il centro dello spettro politico, l’esito è del tutto diverso. Perché diverso è il livello di logoramento e di stress cui sono state rispettivamente sottoposte la società tedesca e quella italiana. Sebbene comune sia l’emancipazione dei capitali dalla rappresentanza politica. Nessuna “rivoluzione populista” sembra infatti in grado di preoccuparli davvero.

Nondimeno, (ne sono testimoni la magra maggioranza e il faticoso percorso negoziale che ha preceduto questo risultato), è difficile dire quanto solida sarà la sostanza di questa ennesima Grande coalizione. Con la candidatura di Martin Schulz prima e, poi, dopo le elezioni di settembre, con l’accesa discussione nelle file della socialdemocrazia sulla scelta tra opposizione e governo, una fase di ripensamento del proprio ruolo e delle proprie politiche si era di fatto aperta all’interno della Spd, dopo un lungo torpore. Questo ripensamento subisce ora una battuta di arresto, almeno a livello del partito. Sarà il confronto con le molte contraddizioni sociali messe tra parentesi a rivelarci quanto il diffuso scontento che questa vicenda si è lasciata dietro possa trasformarsi in agire politico. I fattori che hanno condotto all’erosione dei partiti di massa restano infatti tutti pienamente operativi.

Per il vecchio nuovo governo di Berlino si profila intanto una difficile navigazione europea, tra l’incertezza della situazione italiana (dove però le sparate antieuropeiste cominciano già a tirare in ballo i se e i ma), alla perdita di controllo (politico-ideologico per il momento) sull’est postcomunista e sempre più postdemocratico. Che difficilmente sarà disposto a digerire quell’asse franco-tedesco intenzionato a riprendere saldamente in mano il timone dell’Unione. È su questo piano europeo, in un mondo che va rispolverando le armi della guerra commerciale, che la Germania si troverà a giocare la partita più importante. Nella quale continuità e ortodossia rischiano di essere una zavorra molto pesante.