La tendenza al declino era in atto ormai da un pezzo. La Grande coalizione rappezzata con fatica dopo le elezioni federali e l’insuccesso della socialdemocrazia e dei cristiano democratici aveva tutto il sapore di una soluzione di ripiego debole e poco convincente, in primo luogo per i suoi stessi contraenti. Se è vero quanto afferma Angela Merkel di aver deciso già prima dell’estate di lasciare le redini del suo partito, la Cdu, effettivamente già allora era evidente che la crisi dei grandi partiti popolari del dopoguerra non sarebbe stata un malore passeggero. I risultati delle elezioni regionali in Baviera e domenica scorsa in Assia hanno indicato senza equivoci la profondità di questa crisi e l’accelerazione del suo decorso. Due Laender così diversi, l’uno di orientamento conservatore, l’altro di tradizione socialdemocratica e progressista, seppure appannata, sono più che sufficienti a testimoniare dell’aria di insoddisfazione che tira in tutta la Repubblica federale. È un’aria di disfacimento dell’ordinato sistema bipolare che ha governato la Germania dopo la fine della guerra, che ha portato a compimento la riunificazione del paese e costruito la sua potenza economica. Merkel, ha così dovuto spingersi oltre la sua proverbiale abilità tattica, per cominciare a delineare il quadro di un cambiamento di cui ancora è difficile scorgere i contorni. Dandosi però il tempo necessario. Qualcuno ironizza sul fatto che la cancelliera abbandoni il potere a rate. Prima la direzione del partito, al prossimo congresso di dicembre, poi, a fine legislatura, ogni altro incarico politico. I tedeschi non amano le avventure e i salti nel buio. Così sarà ancora Angela Merkel per qualche anno, e forse con il prestigio ancora maggiore che le deriva da una decisione lungimirante e dall’aver, per prima, pronunciato una verità, a rassicurarli indicando le linee guida della transizione verso un sistema politico più articolato e aderente a una società che si è lasciata alle spalle i grandi blocchi sociali omogenei. È un fatto che dopo 18 anni di governo del partito e 13 del paese si dica disposta a passare la mano, a differenza di una classe politica rissosa abbarbicata al potere e priva di fantasia. Come, per esempio, quella della declinante Csu in Baviera. O quella della socialdemocrazia che, pur avviata sulla strada di una estinzione annunciata, reagisce a malapena e sottacendo l’urgenza del momento, al precipitare della situazione. Vero è che ha bruciato un segretario dopo l’altro, ma senza avviare alcun cambio sostanziale della sua politica di modesto correttivo dell’ordoliberismo germanico. Se, contro ogni ragionevole lettura dei dati elettorali, resta inchiodata alla Grande Coalizione è perché non possiede più gli strumenti, la cultura e l’immaginazione per agirne al di fuori.

Ogni fase di transizione, tuttavia, perfino in un paese come la Germania che ha fatto della stabilità e della “responsabilità” quasi una religione, comporta dei rischi, può sfuggire di mano. Intanto perché si inserisce in una profonda crisi dell’Unione europea che il governo di Berlino, pur tra tentazioni egemoniche e rigidità dottrinarie, ha tentato di fronteggiare evitando rotture a catena. In gran parte grazie all’abilità tattica della cancelliera. In secondo luogo perché il suo duraturo carisma non ha lasciato emergere una chiara leadership alternativa. I numerosi concorrenti che aspirano ora a succederle più che le virtù della collegialità indicano la probabile sterile collisione tra ambizioni singolari.

C’è naturalmente un’altra possibilità e cioè che Angela Merkel, annunciando il suo ripiegamento strategico a lungo termine coltivi l’intenzione di ribadire le sue capacità di governo e l’insostituibilità della sua figura negli equilibri politici tedeschi. Di qui alla fine della legislatura molte cose possono accadere e, facilmente, sotto il segno dell’emergenza. Come che sia, il ritorno al vecchio sistema bipolare, è del tutto improbabile. Questo indicano i risultati elettorali in Baviera e in Assia che hanno visto il successo delle formazioni minori e in particolare dei Verdi. Questi ultimi, pur non potendo aspirare, per loro natura, a rappresentare vasti gruppi sociali, si rivelano i più convincenti portavoce di molte delle preoccupazioni che attraversano trasversalmente la società tedesca, dalla devastazione dell’ecosistema, all’inaridimento della democrazia, alla pace nel Vecchio continente, ben più dello spauracchio dell’invasione islamica sventolato dagli xenofobi di Afd, sempre più compromessi con la destra radicale.