Dopo più di cinque anni si è concluso in prima istanza a Monaco di Baviera il processo al gruppo neonazista Nsu (Clandestinità Nazionalsocialista). Ergastolo per la principale imputata, la 43enne Beate Zschäpe.

È lei l’unica appartenente ancora in vita del gruppo che tra il 1999 e il 2011 ha seminato il terrore nelle comunità turche della Germania ed è ritenuto responsabile di nove omicidi a sfondo razziale, dell’uccisione di un’agente di polizia, di due attentati dinamitardi e di almeno quindici rapine in banca.

Condanne tra i due e i dieci anni per gli altri quattro imputati, considerati fiancheggiatori del gruppo.

Ancora prima dell’inizio del processo nel 2013 era emerso come Zschäpe e i suoi due complici, morti sucidi nel 2011, non potevano essere entrati in clandestinità ed aver ucciso e compiuto attentati senza una rete di riferimento politico e senza alcun sostegno logistico, economico e militare.

Nel corso di questi cinque anni sono emerse molte informazioni non solo sul neonazismo organizzato ma anche sul coinvolgimento dei servizi segreti nella galassia neonazista.

Tutti aspetti che sono stati tenuti fuori dal processo, al centro del quale è rimasta fino all’ultimo la cellula composta dai tre di Zwickau, nonostante durante il procedimento siano stati ascoltati più di 20 testimoni che hanno ammesso di avere avuto legami con l’Nsu.

Troppe sono le domande rimaste senza risposta in questo processo.

Per questo, ora, sono in molti a dire «non è finita qui». Lo dicono innanzitutto i familiari delle vittime, ma anche giornalisti, politici e antifascisti che da anni denunciano quanto il pericolo neonazista sia stato sottovalutato nella Germania riunificata e che vogliono sia fatta luce su quello che chiamano il «Complesso Nsu».

Ne abbiamo parlato con Massimo Perinelli, storico ed esperto di politica delle migrazioni presso la Fondazione Rosa Luxemburg di Berlino che ha organizzato un Tribunale sui crimini dell’Nsu.

Perché il processo non finisce con questa sentenza?

Perché non ha fatto luce sulla questione più importante, quella riguardante, oltre alle responsabilità personali dei singoli imputati, le strutture che hanno reso possibile i loro crimini. Nel complesso si può dire che il processo ha avuto la funzione contraria, quella di coprire la rete e di negare il carattere terroristico del complesso Nsu.

L’immagine che il processo ha fatto passare è quella di cinque imputati legati tra loro dall’ideologia neonazista ma politicamente isolati, senza connessioni al di fuori della loro cellula. Un paragone con il processo alla Raf nel 1977 per capire la differenza: Per il processo ai «terroristi rossi» fu addirittura costruito un edificio speciale adiacente al carcere di Stammheim, a sottolineare l’eccezionalità dei crimini commessi. Il processo di Monaco invece doveva sembrare un normale processo penale.

Doveva passare il messaggio che in Germania non esiste il terrorismo di destra?

Esatto. Tutto in questo processo doveva confermare tale tesi. Ora le cose si fanno più complicate perché le sentenze stesse affermano invece che questo terrorismo è esistito, gli imputati sono stati condannati per il loro sostegno a un gruppo terroristico. L’ipotesi del trio neonazista isolato è servita inoltre a coprire un altro aspetto molto importante, che definisco di «razzismo strutturale».

Il comportamento delle autorità tedesche nei confronti delle vittime ne è un esempio eclatante. Nelle comunità turche si parlò fin dai primi attentati di estrema destra e razzismo, tuttavia le indagini si indirizzarono verso la pista del regolamento di conti familiare e nell’ambito nella criminalità organizzata turca, mentre la stampa etichettava gli omicidi con l’espressione «delitti del Kebab». Tutto questo avveniva, lo ricordiamo, negli anni successivi alla riunificazione, quando la Germania fu investita da un’ondata di violenza xenofoba che ha fatto decine di vittime.

La vicenda dell’Nsu ha fatto emergere un altro aspetto, riguardante il ruolo dei servizi segreti nelle strutture neonaziste. Che ruolo avevano gli «informatori», i V-Männer in queste strutture?

Sicuramente non erano agenti al servizio della democrazia come il nome dell’autorità alla quale rispondevano potrebbe suggerire (Verfassungschutz, alla lettera «difesa della Costituzione»). Si trattava di persone appartenenti ai circuiti bruni che i Servizi reclutavano, pagando, per ottenere informazioni.

I V-Männer erano figure di una certa importanza nei circuiti neonazisti, perché erano quelli che avevano contatti, soldi, telefonini, che si occupavano della propaganda, già allora attiva su internet. I gruppi Blood and Honour e Tühringischer Heimatzschutz, da cui poi è scaturito l’Nsu, non sarebbero stati pensabili senza l’intervento attivo dell’intelligence.

Perché parlate di «sistema Nsu»?

Per sottolineare che i membri dell’Nsu sono certamente responsabili per i morti e i feriti che hanno provocato, ma un intero sistema – autorità inquirenti, politica, polizia, media – ha reso possibile che questa violenza xenofoba potesse rimanere impunita per più di un decennio.

È questo sistema che ha aggredito le vittime e i loro familiari più volte: non si è riconosciuto il loro ruolo di vittime, non si è ascoltata la loro verità, anzi, si è tentato di nasconderla, fino all’ultimo. Hanno testimoniato in tanti appartenenti a quelle strutture, ma nessuno ha subito conseguenze di alcun tipo.

Il verdetto contro Zschäpe e gli altri quattro imputati è passato quasi inosservato. Pensi che questi anni di processo abbiamo avuto un impatto sull’opinione pubblica?

C’è stata una grande mobilitazione in questi cinque anni, non solo nell’area antifascista. Ci sono state manifestazioni, sono nati collettivi di ricerca, c’è stata una grande produzione di testi, documentari, un grande lavoro culturale.

Uno degli aspetti fondamentali di tutto ciò è che ha coinvolto anche i migranti e più recentemente i profughi arrivati negli ultimi anni.

Intorno a questo processo si è creata una narrazione che ha messo al centro il ruolo del razzismo nella società tedesca. Si tratta della rinascita di un movimento antirazzista che non si vedeva dagli anni Novanta.

Però oggi ci ritroviamo a manifestare contro le stragi nel Mediterraneo. Non siamo tornati indietro?

È vero. Ed è per questo che l’antirazzismo deve diventare una delle priorità della sinistra a livello globale. Occorre superare il momento dell’indignazione, che pure è essenziale perché qualcosa si muova, per portare il tema dell’immigrazione al centro del discorso politico e far capire che indietro non si torna, la società post-migrante è il futuro.

La Keupstraße di Colonia, dove i neonzaisti fecero esplodere un ordigno caricato a chiodi nel 2004 è tuttora un simbolo di quella società, venuta dopo i Gastarbeiter rinchiusi nelle fabbriche. Una società fatta di cittadini di origine straniera – piccoli commercianti, gestori di ristoranti – perfettamente integrati nell’economia della città.

Con attivisti, giornalisti, avvocati e familiari delle vittime ha organizzato un Tribunale sul «sistema Nsu».

L’idea era quella di dare voce a chi la violenza xenofoba l’aveva subita. A Colonia esisteva già un comitato dei sopravvissuti all’attentato del 2004, che fin da subito parlarono della pista neonazista. E nel 2006, in città, fu organizzata la prima grande mobilitazione turca dopo la Riunificazione.

Con l’inizio del processo, poi, molte cose si sono messe in moto, dapprima a Colonia per poi connettersi in tutta la Germania con i familiari delle vittime e nelle città dove erano avvenuti gli omicidi.

Il lavoro della rete creatasi intorno al processo all’Nsu ha generato una quantità enorme di informazioni, non solo sul neonazismo organizzato ma ha anche fatto luce sulla riluttanza delle autoritá, dei media, della società nel suo complesso a dare al problema il suo vero nome: razzismo.

Volevamo rendere tutto questo sapere accessibile, ma avevamo bisogno di un luogo, da contrapporre, anche fisicamente, alla sala dall’Alta Corte di Monaco. E cosí abbiamo deciso di organizzare in un teatro di Colonia un tribunale sui crimini dell’Nsu.

Chi erano gli imputati, chi i giudici?

Nel nostro atto d’accusa compaiono i nomi di novanta persone che riteniamo responsabili di quello che chiamiamo il complesso Nsu: neonazisti, agenti dell’intelligence, politici, giornalisti.

Non volevamo fare i giudici come nel Tribunale internazionale Russel ad esempio, dove intellettuali famosi hanno accusato interi Stati per crimini contro i diritti umani.

Il punto fondamentale per noi non era pronunciare una sentenza, quanto piuttosto redigere un’accusa insieme ai diretti interessati: che l’Nsu era una rete operante in tutta la Germania, che uccidevano per razzismo, che erano relativamente sicuri dell’impunità. Abbiamo scritto la nostra accusa e l’abbiamo consegnata alla società.