Con il piede dell’industria sull’orlo della recessione e quello dell’austerity appena pestato dalla nuova governatrice dell’Eurotower di Francoforte. Così si ritrova la Repubblica federale alla luce della relazione diffusa ieri mattina a Wiesbaden dall’Ufficio statistica (Destatis), puntuale nel misurare ogni mese lo stato di salute del made in Germany.

Il comunicato n. 339 conclama ufficialmente il clamoroso crollo della produzione industriale a luglio: meno 4,2% rispetto allo stesso mese del 2018, ma anche meno 0,6% in confronto a giugno. È la prova che la Locomotiva d’Europa continua a rallentare paurosamente, soprattutto per i partner legati a doppio filo alla sua economia, a cominciare dall’Italia. Colpa degli effetti della spietata guerra commerciale tra Pechino e Washington, ma anche dell’imprevedibile Brexit e prima ancora dell’impossibilità di avviare qualunque manovra anticiclica in nome del «debito zero».

Totem devastante per la Germania quanto per l’Eurozona, come sa bene Christine Lagarde che da novembre succederà a Mario Draghi al vertice della Bce.«La nostra politica monetaria sarà molto accomodante, ma da sola non sarà sufficiente» ha ammonito mercoledì l’ex direttrice del Fmi durante l’audizione per la fiducia a Bruxelles. Messaggio diretto al governo tedesco, primo della lunga lista di «Paesi dell’area euro che hanno lo spazio nel bilancio per stimolare l’economia» come afferma Lagarde; perfettamente allineata alla neo-presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, decisa altresì a riformare il Patto di stabilità.

Servirebbe soprattutto a Berlino, dove la Grande coalizione resta appesa all’inderogabile agenda di governo: il 20 settembre prevede proprio la seduta in cui si deciderà se rottamare il «debito zero» e aprire i cordoni della borsa pubblica, piena fino a scoppiare. In cima alla lista delle spese, i 30-40 miliardi a favore della lotta al cambiamento climatico, che fanno lievitare a 50 miliardi lo sforamento del budget attualmente allo studio dei tecnici del ministro delle finanze Olaf Scholz. Sempre più, appare come l’unica soluzione in grado di riaccendere il motore dell’economia tedesca incapace di ripartire senza una spinta forte e immediata. Insieme, naturalmente, all’imprescindibile «stabilità politica» negli Stati fondatori dell’Ue che a Berlino viene auspicata come un mantra.

A tal proposito, la candidatura di Paolo Gentiloni a commissario europeo è stata caldamente festeggiata da chi non ha mai smesso di dialogare (in tedesco) con l’ex premier, noto per gli ottimi rapporti personali con la cancelliera Angela Merkel come per l’amicizia con il presidente della Repubblica, Frank-Walter Steinmeier con cui condivide il cursus agli Esteri. Sorpresa e non poca, invece, per la nomina di Luigi Di Maio alla Farnesina. Anche se la telefonata di Merkel al presidente Mattarella è stata smentita dal Quirinale, a Berlino il nome che rassicura davvero è solo quello di Elisabetta Belloni, segretaria generale del ministero degli Esteri.

Una consolazione per la Germania, non più in balìa della geopolitica salviniana entrata in rotta di collisione perfino con il «Pacchetto-migranti» del ministro dell’Interno Csu, Horst Seehofer.

In attesa che decolli il piano per finanziare la crescita di von der Leyen, orientata finalmente all’istituzione dell’atteso Fondo sovrano europeo. Dovrebbe agire di concerto con il Quantitative easing che Lagarde ha già fatto sapere di volere ripristinare prima possibile. Il famoso «Bazooka» di Draghi, che ora piace tanto anche ai tedeschi.