Quando il 25 novembre 1959 Gérard Philipe scompare a Parigi un paio di settimane prima di compiere trentasette anni, la sua morte segna la fine di una stagione del divismo che la Nouvelle Vague chiuderà per sempre. Se i riti della liturgia stellare sembrano intramontabili – qualcuno rispolvera addirittura il mito di Rodolfo Valentino, mentre una fan in gramaglie si butta dalla Tour Eiffel – l’attore non si è mai atteggiato a divo. Gérard Philipe è soprattutto un grande del teatro che, dopo gli studi al Conservatoire, si fa conoscere nel ’45 per la strepitosa interpretazione del «Caligola» di Albert Camus, che vede in lui «mille anime riassunte in un solo corpo». L’incontro decisivo è quello con Jean Vilar, l’animatore del Théâtre National Populaire che al Palais de Chaillot lo dirige in «Le Cid» di Corneille, «Il principe di Homburg»di Kleist, «Lorenzaccio» di De Musset, «Riccardo II» di Shakespeare, in cui risalta la sua vibrante modernità.

Bello, la voce musicale, empatico, vulnerabile, al cinema sfonda con «Il diavolo in corpo» (1947) da Radiguet, dove il suo François, lo studente ribelle ma fragile innamorato di una donna sposata, diventa il simbolo della gioventù inquieta del dopoguerra. Non meno memorabili i protagonisti di «La Certosa di Parma» (1947) e di «Le rouge et le noir» (1954), gli stendhaliani Fabrizio Del Dongo e Julien Sorel, mai così appassionati e anticonformisti. Il personaggio più ricorrente è quello del dongiovanni seriale declinato nelle varianti più diverse, dal tenente che punta tutto sulla scommessa («Grandi manovre») all’aristocratico blasé che si risveglia nel letto della mondana di turno («La ronde»), dal musicista che sogna l’amore negli scenari del passato per scoprirlo alla fine sotto casa («Le belle della notte») al seduttore incapace di amare che rivela la sua disperata superficialità («Le amanti di Monsieur Ripois»).

Negli anni Cinquanta il cinema francese di qualità, tra vecchie glorie e new entry, se lo contende in un gran numero di titoli, dove è di volta in volta il medico alcolizzato terzomondista («Gli orgogliosi»), l’eroico ingegnere alle prese con la grande diga («Gli anni che non ritornano»), l’accanito frequentatore del tavolo verde («Il giocatore»), l’ardimentoso D’Artagnan («Versailles»), il mitico pittore bohémien («Montparnasse»), il perfido visconte di Valmont («Le relazioni pericolose»). La componente scanzonata trionfa in «Fanfan la Tulipe»(1952), uno dei suoi film più popolari, dove tra intrighi e rapimenti, cavalcate e battaglie, duella sui tetti delle case e delle carrozze, senza mai prendersi troppo sul serio.

Estroverso sul lavoro, è intransigente nella difesa della privacy. Solo agli amici, e non certo ai fotoreporter, è concesso varcare la soglia della villa di Cergy, nel Pontoise, dove vive appartato con la moglie Anne Fourcade e i figli Anne-Marie e Olivier. Se nel ’63 era stata Anne a scrivere «Breve come un respiro» lo struggente memoir tradotto in tutto il mondo, ora è Jérôme Garcin, il marito di Anne-Marie, a rievocare nella commossa biografia-romanzo (pp. 208, euro 18,00, trad. it. Mariella Fenoglio) la sorprendente vitalità del grande attore.