Nella notte del 7 dicembre 1875 il Deutschland, una nave di emigranti partita da Brema per New York, si incagliò alla foce del Tamigi e lentamente affondò. Il Times riportò scene atroci. Nel tentativo di salvare un bambino un marinaio finì decapitato. Per accorciare l’agonia un uomo si impiccò e un altro si tagliò le vene. Morirono anche cinque suore tedesche, espulse dal Reich in base alle leggi anticattoliche del Kulturkampf di Bismarck. Il Times riferisce che «si presero per mano e annegarono insieme. La superiora continuò a gridare “Cristo, vieni presto!” finché non giunse la sua fine».

Allievo di Walter Pater
L’evento ebbe importanti effetti su un inglese trentunenne, Gerard Manley Hopkins. Nel 1863 era entrato con una borsa al Balliol College di Oxford, il più prestigioso per gli studi classici, dove ebbe come tutor Walter Pater. Convertitosi al cattolicesimo, nel 1868 scelse di entrare nella Compagnia di Gesù. Prima, però, annotò nel diario: «Strage degli Innocenti», cioè l’autodafé della sua produzione poetica. Alla decisione di non scrivere, perché «inadatto alla mia professione», si attenne per sette anni.

Al momento del naufragio studiava teologia in Galles. Il Rettore del College, cui comunicò la propria commozione, gli disse che avrebbe apprezzato una poesia sul soggetto. «Con questo suggerimento» annota «mi misi al lavoro e, anche se la mano all’inizio era fuori esercizio, ne produssi una». È Il naufragio del Deutschland, pubblicato, a cura di Nanni Cagnone, da Giometti & Antonello (pp. 108, € 16,00). Di questo straordinario poemetto il traduttore aveva già dato due versioni (Coliseum 1988, La Finestra Editrice 2016), con una sete di perfettibilità simile a quella di Ceronetti col Qohélet. Con felice scelta il testo inglese riporta gli accenti segnati da Hopkins in gesso blu sul manoscritto per marcare la scansione dei versi. Quando lo presentò alla rivista dei Gesuiti The Month, l’editor voleva eliminarli. «Volentieri ne farei a meno anch’io,» scrisse alla madre «se i miei lettori sapessero scandire senza bisogno d’aiuto, ma dubito che ne siano capaci: se i versi non vengono scanditi correttamente, sono rovinati». Il poemetto, a causa di questa e altre «stranezze», non fu pubblicato, ma da allora Hopkins si sentì «libero di comporre».

Nulla di quanto compose vide la luce fino a 29 anni dopo la morte, quando nel 1918 l’amico Robert Bridges, poeta laureato, pubblicò i suoi Poems – premettendo che certi «evidenti difetti di stile» avrebbero alienato «coloro che tengono a un costante decoro letterario». Ma l’anno di pubblicazione la dice lunga. Bridges avvertiva che con la Grande Guerra un’era della poesia inglese (la sua) si era chiusa. Nella terra desolata post-bellica la lingua poetica di Scott, Southey, Landor, Arnold, Rossetti, Swinburne e Tennyson suonava morta.

Forse era giunto il momento per le indecorose stranezze dell’amico, che in pochi anni divenne infatti oggetto di un culto quasi esoterico per le nuove generazioni. Con Hopkins rinasce l’aspra potenza ritmica e allitterata dell’antica poesia anglosassone – anche se il libro (tedesco) che spiegò agli inglesi cosa essa fosse esattamente uscì dieci anni dopo che Hopkins l’aveva resuscitata. Ma egli l’avvertiva dentro alla fibra stessa della lingua. «Nell’inverno del ’75» scrive «il mio orecchio era da tempo posseduto dall’eco di un nuovo ritmo, che ora ho realizzato sulla carta». È lo sprung rhythm, in cui la scansione avviene solo in base agli accenti, senza tener conto del numero delle sillabe. Hopkins lo adotta perché, scrive a Bridges, «è il più vicino al ritmo della prosa, che è il ritmo nativo e naturale del discorso, il più retorico ed enfatico di tutti i ritmi possibili, in grado di combinare eccellenze opposte e, si direbbe, incompatibili: l’accentuazione del ritmo e la naturalezza dell’espressione». E avverte l’amico che i suoi versi non li deve «leggere pigramente con gli occhi, ma come se la carta te li stesse declamando».

Tanto imperiosa è questa dizione che contagia i traduttori. Voltando in prosa God’s Grandeur nel 1937, Benedetto Croce si scusa della «diminuzione» cui sottopone un artista tanto «squisito nel ritmo e nel verso e nell’impasto della lingua». Ma poi le ultime parole della traduzione sono: «lo Spirito Santo sopra il curvo mondo cova con caldo petto e ali, oh, come splendenti!» – dove don Benedetto si fa scaldo e il Mare del Nord bagna Napoli. Quanto alle «oscurità», scrive, non son volute «per produrre un complesso privo di senso determinato e, con la sua misteriosità, atto a dar luogo a infinite interpretazioni, come presso i mallarmeani e altri tormentati-tormentatori artefici francesi e di altri paesi». Al contrario, è «un’oscurità per effetto di eccessiva condensazione» che punta a un’iper-compressa «chiarezza».

Dall’esametro all’anapesto
Il Naufragio di Cagnone è felicemente ritmico. L’incipit è dattilico: «Tù che me dòmini / Dìo! Donatòre del sòffio, del pàne», ma più spesso ricorre l’anapesto – e il metro degli antichi canti di marcia spartani non è inadatto alla preziosa rudezza dell’inglese: «al cuòre dell’Òstia fuggìi con un bàlzo del cuòre», «è dùnque il naufràgio un raccòlto, fa gràno per tè la tempèsta?». Anche se quel naufragio viene presentato come un «dramma didattico messo in scena dalla Provvidenza», Cagnone rileva la sostanziale «contingenza dell’apparato dottrinale» di Hopkins. Nel 1962 Hans Urs von Balthasar (gesuita lui stesso) scriveva che «il Dio vivente gli appare in momenti decisivi come un fuoco cosmico Eracliteo (quasi con l’aspetto di Shiva), come nel ruggente mare invernale in cui affonda e viene distrutto il Deutschland con le sue cinque suore esiliate». E per Croce Hopkins non era «un poeta-gesuita», ma «un gesuita-poeta». La traduzione riserva una sorpresa. Nel momento culminante leggiamo che l’eroica suora, in preda alla furia dei venti, «gridava “Khristós, O Khristós, vieni fa’ presto”», dove in inglese c’è un semplice «Christ». E poi troviamo Galilaìa, Saûlos, Hebhel, Qayin, Símon Pétros, ecc. al posto di Galilee, Paul, Abel, Cain, e Simon Peter. Con queste grafie greco-ebraiche Cagnone intende «rammentare l’intreccio diacronico delle culture» e «avvicinare la devozione del Cristianesimo delle origini». Ma perché introdurle se Hopkins non l’ha fatto? Il testo fondamentale per conoscere questo formidabile poeta resta l’ampia raccolta di poesie e prose impeccabilmente curata da Viola Papetti per i Classici Rizzoli nel 1992, da tempo introvabile: Dalle foglie della Sibilla. Per quale motivo non se ne possa cavare un volume della BUR non è facile capirlo.