Non avrei letto i libri di Gerald Murnane se non mi fosse caduto l’occhio sul nome che firma la prefazione al suo Le pianure: Ben Lerner, forse, per me, il più grande scrittore americano della sua generazione. Poiché immagino che non avrebbe acconsentito a introdurre un testo cui non si sentisse di aderire, la sua scelta mi è sembrata una lettera di impegno. E, infatti.

Le frasi che Lerner preleva per commentarle sono, a un tempo, emblematiche dei suoi interessi per la filosofia del linguaggio e illustrative degli indugi di Murnane sul confine tra ciò che appartiene a una dimensione (dello spazio, del tempo, dell’Io) e ciò che le sfugge, tra ciò che si rende visibile e quanto di quella visibilità rimanda a altro, restando indefinibile, di fatto non perimetrabile. «Il raggio infinito del possibile era limitato solo dall’accadere del reale» – scrive Murnane in «Land Deal», un racconto che fa parte della sua ultima raccolta, Stream System. «E come è ovvio che sia, quel che è esistito in una percezione non può mai esistere nell’altra. Quasi tutto era possibile a eccezione, ovviamente, del reale».

Non vorrei venisse presa come una dichiarazione di poetica: quel che Murnane afferma, e Lerner sottoscrive, ha piuttosto a che fare con la concretezza della logica, distingue la dimensione presente del reale, del proprio ora, dalla temporalità indefinita del possibile, a sua volta altro dal necessario.

In bilico tra due enormità
Questa indefinitezza è forse uno dei caratteri più distintivi della prosa, e prima ancora della postura mentale di Murnane, che sembra sentire, anzi soffrire in prima persona, quel disorientamento ambientale proprio della natura umana, il cui piano percettivo, sensoriale, pulsionale eccede ciò che le parole riescono a nominare.
Non è un caso se il primo romanzo breve tradotto in italiano (da Roberto Serrai per Safarà, 2019) si concentra sulle Pianure, le grandi distese australiane, che il protagonista si propone di documentare in un film per il quale accumula, anno dopo anno, quantità ingenti di materiali che un giorno riverserà nella sua sceneggiatura.

Chiuso nella biblioteca di un palazzo dove chi lo ospita sembra averlo dimenticato, il cineasta si sente «in bilico tra due enormità»: da un lato il paesaggio a perdita d’occhio inquadrato dalle finestre, dall’altro tutto il sapere accumulato nelle file dei volumi accatastati. Mentre impara a conoscere i «misteriosi uomini delle pianure», poco a poco si immedesima in quella che ritiene essere la loro missione: «dare a giorni monotoni su un panorama piatto forma e sostanza di mito».

Insieme al grande ma discontinuo David Malouf e a Thomas Keneally, Gerald Murnane – i cui nonni erano emigrati dall’Irlanda portandosi dietro usi e costumi del loro integralismo cattolico – fa parte dell’ultima generazione di scrittori «cresciuti in una Australia che era ancora una colonia culturale dell’Inghilterra, repressa, puritana e diffidente verso gli stranieri»: così scrive J. M. Coetzee in una nota dedicata a Murnane, dove risale alla biografia di questo scrittore che ammira e al tempo stesso non sembra afferrare, un uomo che si era voluto sacerdote, poi aveva abbandonato l’investitura, senza abdicare tuttavia alla fede; e mentre annetteva il peccato all’ontologia della condizione umana, Murnane si disponeva a una filosofia fortissimamente plasmata sui misteri delle estensioni paesaggistiche. Intanto, scriveva.

Al tempo in cui uscì il suo primo romanzo, Tamarisk Row (ora tradotto da Roberto Serrai per Safarà, pp. 305, € 19,50) Murnane aveva trentacinque anni: era il 1974, da dieci lavorava a questo libro che cambiava via via fisionomia, mantenendo fissa la coincidenza fra scrittura e esposizione a spazi apparentemente realistici, in realtà filtrati «come attraverso un vetro colorato».

Tutto il mondo fantastico del protagonista, infatti, il bambino di nome Clement Killeaton, si proietta in una serie di biglie che lancia lungo la pista scavata nella sabbia del cortile di casa: le lancia come i cavalli da corsa sui quali il padre investe, perdendo via via tutti i suoi averi, e ne ripercorre mentalmente le sorti con il lessico dei cronisti dell’ippica, abbandonandosi all’enfasi del crescendo che accompagna l’approssimarsi dei galoppatori al traguardo, mentre i colori delle giubbe dei fantini si mescolano ai morbidi pastelli delle colline, e tutto si confonde e si riflette nelle iridescenze delle sue biglie di vetro.

Siamo a Bassett, Stato di Victoria, Australia, fra la fine degli anni Trenta e la metà dei Quaranta: come la famiglia di Murnane, anche i Killeane hanno ascendenze irlandesi. Augustine, il padre di Clement, che aveva cominciato a lavorare alla fattoria dei suoi nel Distretto Occidentale, si fa attirare dalle corse a Bassett, e comincia a scommettere sui cavalli, proponendosi di abbandonare la cittadina, e il lavoro trovato nel podere di un manicomio, appena il suo cavallo abbia vinto abbastanza da consentirgli di tornare alla casa di famiglia.

Tutto il romanzo ruota intorno al mondo delle corse, degli allibratori, degli intricati traffici illegali degli scommettitori cui Augustine affida via via i suoi orizzonti di prosperità. Intanto alleva esemplari pressoché perfetti di galline Rhode Island, che non intende esibire ai concorsi, contentandosi di ammirarle mentre crescono nel cortile dove suo figlio fa correre le biglie cui dà i nomi dei cavalli. Nella loro poverissima casa, dove la moglie obbliga Augustine a tenere il conto dei debiti accumulati, osando sperare che si decida a mollare, nessuno degli altri appassionati dell’ippica è mai entrato: dall’abbigliamento, dai modi, dall’eloquio elegante, tutti pensano che Augustine sia uno di loro; ma non lo è. La sua unica cavalla vincente si è spezzata una gamba e l’ha ammazzata lui stesso dopo la sola gara mai corsa.

Da allora, «per quasi vent’anni e negli ippodromi di tutto lo stato, Augustine Killeaton, aiutato soltanto dalla sua perspicacia e dal suo abito ben stirato, ha continuato a cercare di strappare agli allevatori ai proprietari di fabbriche e agli allibratori appena un po’ di quella ricchezza che permette loro di abitare in case fresche e di ammirare la luce del tardo pomeriggio nelle loro foreste del Gippsland o l’incredibile crepuscolo in mezzo ai loro palazzi di cristallo».

Velocità, paesaggi, colore
A casa, dopo l’incidente della sua cavalla, ammassa i cuscini e monta loro in groppa, alza il frustino, imbocca la curva dei suoi sogni vincenti, poi «si guarda indietro e vede l’umida e verde sagoma dell’Irlanda ormai lontana». Nostalgie delle scogliere abbandonate dagli antenati si mischiano alla frustrazione del presente per investimenti sempre perdenti, e tuttavia Augustine resta un uomo dolce, speranzoso, affidabile: è padre premuroso e affettivo per il suo bambino cui trasmette la passione per i cavalli, quel mondo delle corse il cui fascino estetico non è guastato dagli azzardi imbroglioni degli uomini (piuttosto dal lessico di una traduzione a tratti anche virtuosa, ma dove i cavalli – che non hanno «zampe» bensì gambe, che non hanno «muso» bensì testa, che non vengono tenuti in «stalle» bensì in scuderie, e così via – vengono descritti con la terminologia propria delle mucche).

A scuola, in un contesto repressivo dove le punizioni corporali sono l’ovvio corollario di una educazione cattolica e retriva, Clement traccia diagrammi sui suoi quaderni dove la posizione nella graduatoria raggiunta dai compagni riproduce il posizionamento dei cavalli dalla partenza all’arrivo: tutto, intorno a lui, è un grande ippodromo, tutto è velocità, paesaggio in fuga, concitazione, colore.

«Le frasi di Murnane sono piccole dialettiche di tedio e bellezza, piattezza e profondità», annota Ben Lerner, sebbene non a proposito di questo libro. E con la tipica, intelligente analiticità dello scrittore americano proveniente da buone scuole, aggiunge: «Le battute cadono con considerevole regolarità entro le divisioni interne di sostantivo e proposizione, così che nel corso della lettura si accumula un senso di poetica ritmicità. (Lo intendo in senso anapestico e dattilico – enfasi accentuativa che tende a essere divisa da un paio di sillabe atone)».

La fortuna di Murnane è arrivata tardiva, anche – se non soprattutto – a causa di quella sua ritrosìa che lo accomuna agli «uomini che guardano per sempre l’orizzonte», gli illusi e «misteriosi uomini delle pianure», così estranei a una tecnologia che a tutt’oggi Murnane non governa e non possiede.

Già al suo esordio, quel Tamarisk Row che allude al tempo stesso al nome di un cavallo, di un distretto e dell’ippodromo modellato da Clement Killeaton nella sabbia del suo cortile, era evidente che lo scrittore australiano padroneggiava la teoria della letteratura e tuttavia non se ne faceva influenzare, era consapevole dei tardi cascami dello sperimentalismo ma non se ne faceva contagiare.

Frasi elementari, persino sconcertanti nelle loro sequenze di soggetto, complemento oggetto, verbo, si sommano una dopo l’altra per pagine e pagine senza una subordinata a disturbarne l’andamento paratattico. Poi, inaspettatamente, irrompono periodi lunghissimi, concentrici, trasparentemente involuti come i colori delle amate biglie di Clement, fino ad approdare alla costruzione complessa dell’ultima sezione del libro, dove il bambino, ormai nella sua nuova casa, dopo che il padre si è lasciato alle spalle Bassett e i suoi debiti, ricapitola le immagini cui è legata la propria infanzia.

Tutti gli elementi sono ora in campo: i cavalli, il pubblico serrato alle staccionate, le pianure dove Clement aveva sognato di vedere materializzarsi figure di donne nude, le frasi orecchiate dietro la porta dei genitori, le deludenti immagini strappate alle sue fantasie sessuali, il labirinto delle strade cittadine in cui gli era capitato di perdersi. E di nuovo l’approssimarsi al traguardo dei galoppatori, uno dopo l’altro chiamati per nome: tutti quelli sui quali suo padre aveva puntato, e tra loro «uno di quei cavalli che è sempre sul punto di vincere una corsa e finisce per spezzarti il cuore».

Murnane costruisce questa pagina con scrittura contrappuntistica, le frasi si interrompono, si richiamano, si inseguono come in una sua personale arte della fuga, e tutte le immagini al tempo stesso affondano nel reale e ne riemergono, regredendo all’originario stadio del possibile.