Quando a Marsiglia soffia il maestrale, sulla banchina numero quattro della Joliette, si è sospinti come un battello in porto all’interno del Mucem-Musée des civilisations de l’Europe et de la Méditerranée, inaugurato nel 2013 e rapidamente entrato nel novero dei cinquanta musei più visitati al mondo. Quasi a picco sul mare, le cui tinte azzurre riempiono i trafori di una gigantesca murabiyyah, l’edificio progettato da Rudy Ricciotti ospita fino al 4 marzo un’esposizione dedicata a Georges Henri Rivière (Parigi 1897-Louveciennes 1985), l’inventore del museo moderno in bilico tra tradizione e progresso.
«Molto legato all’incremento delle collezioni, Rivière le considera da etnologo come un tutto che riassume una cultura, rifiutando qualsiasi gerarchia ma includendo la loro dimensione sociale, creativa ed estetica», ha dichiarato Germain Viatte, curatore principale della rassegna a cui è associata Marie-Charlotte Calafat. Secondo Viatte, già direttore dei musei della città focea, ciò che si può osservare oggi al Mucem rispecchia le scelte di Rivière, per il quale gli oggetti costituiscono un canale di accesso a un mondo animato e in costante evoluzione. Voir, c’est comprendre – il verso di Paul Éluard che nel titolo della mostra segue il nome del protagonista – si riferisce proprio all’esercizio di uno sguardo sensibile praticato da Rivière.
Al medesimo concetto è ispirato l’allestimento realizzato dall’agenzia Struc Archi di Olivier Bedu, nota per le sue architetture «in scala umana». Ne risulta una scenografia di moduli interconnessi, dove manufatti e pensiero si amalgamano. Attraverso un percorso sinuoso, che genera suspense e apre a guizzi di stupore, vengono delineate le infinite nuances del personaggio e del suo operato.
La prima delle quattro sezioni crono-tematiche analizza l’infanzia e la formazione di Rivière, volte sia ai rituali della campagna (sua madre proveniva dalle terre bagnate dall’Oise) che alle attrattive – film pioneristici, fiere, spettacoli circensi attorno a Montmartre – della vita urbana. Dopo la morte del padre, avvenuta nel 1912, il giovanissimo Rivière «con la complicità» del futuro ispettore generale dei musei di provincia Jean Vergnet si appassiona ai libri e ai monumenti. Ma è soprattutto la poliedrica figura dello zio Henri Rivière, abile incisore di gusto giapponizzante, fotografo, collezionista ed esponente di spicco del cabaret parigino Le Chat Noir, a plasmare il suo sguardo d’artista. Da Henri (a cui sarà talmente devoto da prenderne il nome), George H. Rivière acquisisce la capacità di esaminare e toccare gli oggetti nell’inesauribile confronto tra culture, dal passato più remoto al presente, senza focalizzarsi su una tecnica o una specialità accademica.
Un altro incontro significativo nel cammino adolescenziale di Rivière è quello con Louis Aragon, che lo spingerà definitivamente a spendere la propria esistenza nell’indagine delle arti viventi. In tale unità documentaria, punteggiata da fotografie famigliari e quadri – da segnalare Le Cirque Médrano di Fernand Léger (1918) –, uno spazio è riservato alla «carriera» musicale di Georges Henri, il quale dimostrerà affezione per quest’ambito sia nella raccolta di strumenti musicali, poi lasciati fluttuare nelle vetrine che gli valsero l’appellativo di mago, sia nella composizione: sua, infatti, una canzone per la celebre e tumultuosa danzatrice afroamericana Joséphine Baker.
L’importanza della musica nella vita di Rivière, che per diletto sperimenterà anche la critica jazz, è approfondita nella seconda parte dell’esposizione, concernente il periodo che va dal 1915 al 1935. Sono gli anni in cui Le Bœuf sur le Toit è frequentato da Picasso, Cocteau, Satie, Breton e l’intera avanguardia della capitale francese. L’Œil cacodylate (1921), opera eclettica di Francis Picabia un tempo affissa sopra il bar del jazz club parigino, è ora in prestito al Mucem dal Centre Pompidou, per ricordare le serate in cui Rivière improvvisava al piano.
Da questa sezione emerge finalmente il ruolo di George Henri nel panorama della museologia: dopo aver organizzato una mostra sulle antiche arti delle Americhe assemblando 1250 oggetti inerenti a collezioni pubbliche e private, nel 1928 egli diviene l’assistente di Paul Rivet al museo etnografico del Trocadéro. La maschera funeraria in oro sbalzato di cultura Nazca e la superba Testa di Oba in bronzo originaria dell’antico regno del Benin appartenuta a Picasso, testimoniano l’impegno di Rivet e Rivière nel rianimare lo studio di culture lontane.
Per promuovere la vocazione sociale e scientifica dell’etnologia, il sodalizio avvia un centinaio di ricerche sul terreno appoggiandosi all’istituto che fa capo a Marcel Mauss. Malgrado la missione Dakar-Gibuti di Marcel Griaule si inscriva nella politica coloniale della Francia, ne combatte pregiudizi razziali e culturali esaltando ciò che unisce gli uomini: il gesto e la parola, la tecnica e l’arte. La più stretta collaboratrice di Rivière è sua sorella Thérèse, che tra 1935 e 1936 si reca nella regione berbera dell’Aurès, in Algeria, con Germaine Tillion. Da sola riunirà 857 oggetti, 3500 fotografie e 235 disegni prodotti su sua richiesta dalla popolazione indigena. Diversi esemplari di questi capolavori naïf si possono ammirare al Mucem assieme a una colorata tovaglia per offrire datteri e coprire il cous-cous: la tenera eredità di Thérèse, naufragata nella follia a causa delle epurazioni e dell’esecuzione dei resistenti al Musée de l’Homme.
Gli ultimi segmenti di GHR-Voir, c’est comprendre abbandonano le terre d’Oltremare per addentrarsi nei territori della Francia. Nel 1937 vede la luce presso il Palais de Chaillot un museo statale di arti e tradizioni popolari. Rivière assume l’incarico di conservatore e ne implementa le collezioni secondo la strategia del dono appresa da Mauss. Le inchieste sul campo e le esposizioni si susseguono a ritmo frenetico. Alcune tra le più rilevanti – Bretagne (1951), Théâtres populaires de marionnettes (1952), Arts et traditions du cirque (1956-57), Bergers de France (1962) – sono rievocate da Viatte con la riproposizione di vetrine (sobrie, armoniche, equilibrate alla maniera di Rivière) e della cosiddetta unità ecologica dell’Aubrac. Un bagliore onirico si sprigiona dai costumi circensi custoditi come reliquie dalle sorelle Vesque mentre l’abito rosso indossato dallo stesso Rivière in un siparietto con Louis Merlin ha l’aria di un cimelio affatto malinconico.
I materiali che accompagnano il visitatore verso la conclusione di questa densissima e istruttiva rassegna – 600 gli oggetti e i documenti d’archivio presentati al pubblico, di cui larga parte ha integrato il fondo del Mucem – raccontano degli sforzi di Rivière per forgiare il «suo» museo ideale. Ci riuscirà nel 1972 con l’apertura di una galleria destinata ai ricercatori presso la Porte des Sablons, e poi nel 1975, quando l’aggiunta del padiglione culturale segnerà il compimento di una struttura immaginata «in comune» con Jean Dubuisson. Intanto era sopraggiunta l’età della pensione ma George Henri, che nel 1944 era stato ingiustamente accusato di collaborazionismo e sospeso dalle sue funzioni, non aveva perso quell’attitudine alla leggerezza che guidò i suoi passi sino alla fine. Un po’ come la trottola uscita dall’atelier di tornitura di Albert Rouvier a Aiguines e da lui definita arte pura per un «musée dérisoire».