Sembrava che la sola forma congeniale a George Saunders fosse quella breve del racconto e in qualche modo il suo approdo al romanzo lo conferma: l’ultima sfida dello scrittore americano sta infatti nel costringere l’estensione di una storia corale in una serie di frammenti, negandosi dunque allo sviluppo e alle svolte di un intreccio ancora più radicalmente di quanto non avesse fatto fino ad ora. Del resto, i suoi libri sono sempre una provocazione naturale (ossia niente affatto artatamente ricercata) ai limiti dell’immaginazione, alle convenzioni letterarie, al conforto del senso comune. E sono infatti libri impegnativi a dispetto della loro apparente trasparenza, perché implicano continue dislocazioni mentali, una attenzione per nulla fluttuante, e possibilmente più letture, allo scopo di fare emergere quei dettagli che rischiavano di sprofondare nelle stratificazioni della trama.
Uno stato di transizione
Solo la ribellione del genere romanzesco a qualsivoglia pretesa di fissarne i contorni permette dunque di includere nel canone anche l’ultimo libro di Saunders, Lincoln nel Bardo (traduzione eccellentemente intonata di Cristiana Mennella, Feltrinelli, pp. 347, euro 18,50) che lo scrittore americano ha ideato come montaggio di un coro di voci, tutte appartenenti a uomini e donne che nella nostra cultura diremmo «morti», ma che il buddismo tibetano assegna a quello stato – il Bardo nominato nel titolo del libro – da intendersi come un periodo di transizione dalla vita passata a quella futura. In questo stadio, la coscienza si separa dal corpo e la mente acquisisce una sua consistenza, che tuttavia non conosce ostacoli, viaggia nello spazio e può penetrare anche attraverso i corpi degli altri o ricalarsi nel proprio.
Secondo il libro tibetano dei Morti, nel Bardo gli spiriti soffrono perché non accettano il distacco dalla loro esistenza terrena, e il persistente attaccamento a persone e averi appena lasciati provoca in loro un misto di rimpianto e rancore. I personaggi di Saunders lo dicono chiaramente: per loro il dono più prezioso è il tempo, perciò ne reclamano di più, prima di staccarsi definitivamente dalla vita.
Come già in uno dei suoi primi racconti, l’epoca storica scelta da Saunders per ambientare la sua vicenda è quella della Guerra civile americana: proprio il giorno in cui vengono pubblicati gli elenchi dei caduti nella sanguinosa vittoria dell’Unione a Fort Donelson, il figlio unidicenne di Abraham Lincoln, Willie, viene sepolto in una cripta del cimitero di Oak Hill vicino a Georgetown. Una folla di spiriti si fa subito intorno al piccolo, morto di febbre tifoidea, e più degli altri deciso a non fare coincidere il suo destino con quello del corpo che lo ha abbandonato.
Ironia e commozione, pietà e derisione si alternano a definire i caratteri degli immateriali personaggi descritti da Saunders, che apre il suo libro con il racconto di Hans Vollman, nella sua vita terrena sposato a quarantaseri anni con una ragazza di sedici: deciso a non approfittare di lei, il saggio marito aveva rimandato la consumazione delle nozze finché proprio nel giorno in cui la lussuria stava vincendo sia le sue resistenze sia quelle della sua giovane moglie una trave era venuta giù dal soffitto e aveva colpito Hans, passato a miglior vita. Da allora, l’uomo se ne va in giro per il Bardo preceduto dal suo enorme membro eretto, ancora in attesa di soddisfazione. Mentre aggiunge dettagli al proprio racconto, che si fa via via più scatologico, Vollman si imbatte nel piccolo Willie Lincoln, appena venuto fuori dalla bara, quella che gli spiriti chiamano la «cassa da malato». Accanto a lui c’è anche Roger Bevins III, omosessule disperato che si è rescisso le vene del polsi con un coltello da macellaio. Poiché se n’è pentito quando era ormai troppo tardi, nel suo nuovo stato ha sviluppato mille occhi aperti sulle bellezze del mondo alle quali il suo gesto lo ha sottratto. E più tardi incontreremo un soldato morto nella Guerra civile, il capitano Wllliam Prince, che si rivolge alla moglie per rivelarle, con il suo lessico primitivo e sgrammaticato, che l’ha tradita: dirle la verità, ne è disperatamente convinto, lo libererà dalla prigionia di quel luogo cupo e terribile in cui ora si trova.
C’era la luna, no non c’era
Diverso dagli altri perché più vicino alla consapevolezza della condizione nella quale si trova, il reverendo Everly Thomans non si inganna sulla sua natura di «uomo morto», ma essendo scappato dal luogo del Giudizio Universale, dove gli è stata comminata la condanna a vita, racconta le scene terribili alle quali ha assistito, quando i cuori dei trapassati venivano estratti e deposti su una bilancia, e lo sventurato di turno subiva interrogatori finalizzati a valutare la sua condotta terrena.
Diversi generi di voci si alternano nel libro: a quelle degli spiriti si aggiungono le testimonianze – alcune prese da fonti reali altre inventate – sulla vita dei Lincoln, o sulla guerra in corso, o sulla luna cui è ironicamente dedicato un breve capitolo, la luna che secondo gli uni splendeva nel cielo e secondo gli altri era velata dalle nubi la sera della grande festa data dal Presidente e da sua moglie, mentra già il piccolo Willie giaceva a letto febbricitante.
Bellissimi e commoventi i brani in cui si racconta di Abraham Lincoln, affranto, in visita al cimitero, la sera del giorno in cui Willie è stato seppellito. Il bambino – o meglio il suo spirito – è lì, fuori dalla bara. Corre incontro al padre, pretende di venire preso in braccio, lo supplica di guardare dalla sua parte, di accarezzare lui non il suo corpo; ma il Presidente com’è ovvio non lo vede, e lo spirito del bambino, che desidera quelle carezze, si ricongiunge – in un ultimo gesto di disperazione – al suo corpo imbalsamato. «Il gentiluomo trasandato colmava di attenzioni la piccola forma, accarezzava i capelli, lisciava e risistemava le pallide mani da bambola», racconta la voce narrante, e intanto le anime morte si alternano a fornire diverse descrizioni del comportamento di Lincoln di fronte alla bara di Willie: «Lanciò un unico, straziante singulto», riporta Hans Vollman, «O un gemito. M’è parso più un gemito» lo corregge il Reverendo Thomas.
Attentissimo a cambiare registro appena prima che il lettore si accomodi, Saunders iscrive abbondanti elementi comici in una cornice tragica, creando quello stridore speciale che si accompagna da sempre alla sua voce e la rende così pregevolmente originale. Non tutto è chiaro, né vuole esserlo, in questo libro che partecipa di due culture, la nostra e quella tibetana, e incrocia la perdita privata di Abraham Lincoln alla tragedia collettiva della Guerra Civile. Proprio perciò sarà utile ripercorrere alcune pagine del libro insieme all’autore, in arrivo in Italia dove venerdì prossimo sarà ospite del Festi valetteratura di Mantova.

GEORGE-SAUNDERS 3

Come è arrivato all’idea che è alla base di questa sua personalissima approssimazione al romanzo?
Molti anni fa un mio amico mi raccontò la storia secondo la quale Lincoln sarebbe entrato nella cripta dove era sepolto suo figlio. Me lo disse mentre stavamo passando in macchina davanti al cimitero di Oak Hill, nei dintorni di Georgetown. Questa storia mi è rimasta incollata addosso per anni, finché finalmente, verso il 2013, mi sono sentito pronto a usarla. Sapevo che avrebbe costituito per me una sfida. Al tempo stesso approfittai della opportunità che mi venne data dalla scrittura di un saggio che mi portò a trascorrere una settimana in incognita, in un campo di homeless. In qualche modo questa esperienza in un posto fisicamente affollato, dove erano ammassate persone infelici, piene di rimpianti, che raccontavano storie dalle quali uscivano sempre giustificati, sempre assolti dalle loro responsabilità, si rivelò importante per la scrittura del libro.
Questo è un romanzo di voci. Lei ha deciso di costruirlo mettendo in calce a ogni brano il nome del personaggio che ne è l’autore, così l’effetto è quello di una sequenza di epigrafi. Come mai ha scelto questa strategia?
In un primo tempo cominciai a usare una formula mista: gli spiriti venivano identificati con il loro nome all’inizio di ogni blocco di testo che li riguardava, mentre facevo firmare gli autori dei resoconti storici alla fine delle loro dichiarazioni, come si fa nelle citazioni; ma poi questa incongruenza mi ha infastidito e me ne sono sbarazzato. A un certo punto, la forma attuale del romanzo ha cominciato a maturare in me e persino a sembrarmi importante, proprio perché induce quel leggero disorientamento nel lettore che mi pare appropriato al tema di cui si parla.
In effetti sembra che tutti i suoi libri abbiano in comune una sorta di straniante coesistenza tra aspetti surreali e dettagli molto materiali, presi dalla vita di ogni giorno. E questa convivenza spiazzante si risolve in una oscillazione fra sospensione della credulità e richiamo alla materialità dei fatti. Nel suo romanzo lei sembra contare particolarmente su questa oscillazione: le è servita per virare in senso ironico la situazione o per altri scopi?
Condivido in pieno la sua osservazione e credo di essermi servito di questa strategia per due ragioni: prima di tutto proprio per creare quello stato di tensione al quale lei allude, in modo da disorientare il lettore e portarlo a farsi più vicino, come quando si sente qualche strano e contraddittorio suono provenire da una stanza comunicante. In secondo luogo, perché a me pare che la sua descrizione di una coesistenza straniante fra aspetti surreali e dettagli molto materiali presi dalle nostre esistenze quotidiane riassuma un po’ la vita stessa. Forse la divisione tra surreale e reale è solo una costruzione di comodo che ci concediamo, perché di fatto è molto duro vivere tranquilli in contesti così mutevoli, insani e imprevedibili come quelli in cui abitiamo.
Lo spirito del piccolo Lincoln appena morto fa il suo ingresso nel romanzo mentre il personaggio di Hans Vollman sta concludendo il suo racconto scatologico. Perché ha deciso di introdurre la figura del protagonista proprio in un momento simile?
Tendo a non pianificare nulla, né a razionalizzare, dunque prendo decisoni come questa di corsa, intuitivamente, senza stare tanto a elaborare concetti. Vado avanti un pezzettino alla volta e l’obiettivo, per me, è sempre potenziare al massimo l’energia della prosa. La mia ipotesi, riguardo alla scelta di cui le mi chiede, è che mi sono imbattuto in questa possibilità, mi è piaciuta e l’ho fatta mia. Però, in effetti, quel che sto dicendo è in parte una bugia: mentre lavoro, infatti, osservo costantemente l’energia che si sprigiona dalla leggibilità della mia scrittura, e mi domando quale sia il modo migliore per riprodurla: «Sono abbastanza coinvolto?», mi chiedo. « È divertente quel che scrivo?» «Scorre veloce?» Se la risposta è no rivedo tutto finché non approdo a un sì. Ma ci arrivo con l’intutito più che grazie a una qualche logica.
Lei ha dedicato un capitolo intero alla descrizione della luna, così come la riportavano i vari resoconti storici di quella serata. Non solo in questo brano, il cui intento è evidentemente ironico, ma in tutto il libro quasi tutte le testimonianze che riporta sono inventate, giusto?
Sì, il libro è fatto di un misto di citazioni reali e inventate, ma non vorrei rivelare proprio tutto… preferisco non parlare troppo di ciò che è frutto della mia fantasia. Del resto, dopo avere letto vari testi di storia ho capito che con il passare del tempo la gente diventa meno capace di accordarsi, anche solo su questioni basiche: di che colore aveva gli occhi Lincoln? Blu, grigi, marroni, grigio-celesti, tutte queste diverse risposte venivano da persone che lo hanno effettivamente incontrato. Gli scienziati ci hanno insegnato che, sempre, quando tiriamo fuori un ricordo, lo risistemiamo un po’, gli diamo una forma leggermente diversa a seconda delle credenze attuali o di altri fattori. Quindi non esiste una memoria fissata per sempre, un ricordo veritiero che possiamo ristabilire in quanto tale. Come non si stancava di dirmi un homless che ho incontrato nel campo di cui le parlavo prima: «tutto è in continuo cambiamento, sempre».
Fra i personaggi che le hanno richiesto un maggior lavoro nella resa del loro linguaggio ansiosamente sgrammaticato e primitivo, ci sono due donne, Elizabeth Crawford e Elise Traynor; più avanti incontriamo anche il capitano William Prince, morto nella Guerra civile, cui è dedicato un capitolo tra i più riusciti del romanzo. Quale ruoli desiderava che ricoprissero questi caratteri nell’economia del suo libro?
Una delle peculiarità del romanzo sta nel fatto che ho cercato di riprodurre i discorsi degli spiriti che abitano il Bardo con il linguaggio che avrebbero usato quando erano in vita. Elizabeth Crawford è una campagnola, che è stata oggetto di stalking e di molestie da un ragazzo di città intorno al 1840. Non è dotata di grande proprietà di linguaggio, la interessano i fatti della campagna. Miss Traynor invece è morta da bambina e si è rifiutata di andarsene all’altro mondo, perciò qui funziona come una sorta di monito per Willie Lincoln, che non intende staccarsi dalla vita. Il suo modo di parlare è strano perché man mano che gli anni passavano lei era diventata lentamente sempre più cupa e dissociata. Ogni volta che apre la bocca comincia bene ma poi il suo discorso diventa perverso e inarticolato. Quanto al capitano Prince, l’idea mi venne dalla lettura di un libro di lettere scritte dai soldati che combatterono nella Guerra Civile: fra loro c’era un ragazzo che mandava a sua moglie lettere piene di fatti relativi alla quotidianità matrimoniale. Era geloso e probabilmente la stava anche tradendo (o almeno, questo era quanto la gente diceva alle sue spalle) e la sua scrittura denunciava un certo distacco: per esempio, criticava costantemente il modo in cui la moglie teneva la casa e così via. Ho ribattuto a macchina alcune di queste lettere e ho cominciato a scherzarci su, cambiandone il tono, tagliandole, ribadendo alcuni punti, e ho trasformato quel soldato in un personaggio diverso proprio tramite il linguaggio che gli attribuisco. Alla fine, mi pare che comunque sia rimasto molto poco di lui, ma è stato un modo piacevole di imparare come poteva suonare una voce del XIX secolo.
Il brano più commovente del romanzo è probabilmente quello in cui Abrahm Lincoln va a piangere, nella notte, sulla bara di suo figlio Willie. Il bambino è lì – almeno in forma di spirito – ed è costernato perché il padre non lo prende in braccio, come faceva abitualmente. Frustrato, a un certo punto decide di rientrare nel suo corpo, e a quel punto il padre sembra avvertire un cambiamento nella «forma» che stringe fra le braccia. Questo implica che il vero sé di ognuno è oltre il suo corpo?
Ho immaginato che il corpo fosse niente altro che… un corpo. Morto, inerte… Mentre il secondo Willie, quello di cui seguiamo i movimenti nel libro, è piuttosto qualcosa come il suo spirito. Dunque, nessuno dei due è il bambino che Lincon ha conosciuto. In alcuni testi buddisti si parla di «delog» riferendosi a chi essendo morto, magari persino da molto tempo, torna indietro a riabitare il suo corpo. Nelle storie che racconto ci sono descrizioni di spiriti per i quali la stessa vista della fisicità dei loro corpi risulta ripugnante: li vedono come vermi, come cumuli di feci. In quello stadio il corpo morto risulta dunque irrilevante, quando non francamente disgustoso, per lo spirito che, invece, si accende di luce.
Come mai il Reverendo Everly Thomas, diversamente da tutti gli altri, sa di essere morto? Da dove gli viene questa consapevolezza, così come la certezza di essere dannato?
La mia idea era che il Reverendo muore e trapassa con naturalezza direttamente nel Bardo, questa sorta di purgatorio. Ma poi scopre che lo aspetta il giudizio e il verdetto su di lui non è buono. La cosa lo stupisce perché la sua era stata una vita dedicata a attività spirituali, e lo spaventa al punto che se la dà a gambe. La forza del terrore lo proietta indietro nel Bardo dove continua a sentirsi talmente impietrito da quanto ha visto laggiù (e da ciò che ha imparato dal suo destino) che ci mette una speciale passione nel sostare in quel luogo di mezzo, dove trova anche Vollman e Bevins, i suoi interlocutori principali. E tuttavia non riesce a dimenticare quel che ha visto. Perché egli sia dannato, beh, questo non lo sappiamo. Coloro che cercano di sostare nel Bardo, del resto, hanno già scoperto che la via migliore per farlo è limitarsi a riprodurre ancora e ancora i loro «miti di fondazione», ovvero la loro versione del perché si trovino lì dove si trovano. Ma questa ripetitività ha un effetto corrosivo sulla loro memoria, e così diventano pian piano esseri bidimensionali, persone menomate nella loro capacità di intendere e di volere. Perciò, il Reverendo non può assolutamente ricordare ciò che lo ha dannato e nemmeno noi riusciamo a capirlo. Quel che importa (per lui ma direi anche per l’intero libro) è che il Reverendo intuisce (e spera) che Dio non sia così spietato da lasciarlo senza speranza: sente che in tutti gli istanti che ancora gli vengono dati deve comportarsi meglio possibile, e spera che questo lo riabiliti, che renda migliore il Giudizio su di lui. A me pare che, in definitiva, sia proprio questa la situazione nella quale anche noi ci troviamo: ogni istante porta con sé la scelta di una maggiore consapevolezza e bontà, e in un certo senso rappresenta la nostra unica chance, momento per momento.