Stupida. Ottimista contro ogni evidenza. Vestale della più insensata fiducia nella bontà della natura umana. Erede di un Rousseau ingenuo e petulante. Monumento kitsch del romanticismo più languido e patetico. Borghese nell’intimo, e perciò priva di stile. Rumorosamente progressista, ma in realtà paternalista, da buona castellana della Francia profonda. Semmai interessante, più che per i conati narrativi, per la vita tumultuosa – capace di rendersi presto indipendente da un marito rozzo e violento, è stata amante (fra gli altri) di Musset e Chopin. Quanto assomiglia a George Sand questa caricatura feroce, in larga misura debitrice, in origine, dei sarcasmi misogini di Baudelaire, ma ancora oggi diffusa? Negli ultimi decenni, la critica – femminista e non solo – si è impegnata a smontare uno a uno i capi d’imputazione, riscoprendo la varietà di un’opera letteraria che non può essere ridotta alle celeberrime oleografie rusticali (La Mare au diable, François le Champi). Del resto, basta sfogliare la corrispondenza con Flaubert, che aveva per lei una venerazione solo a tratti increspata di ironia, per convincersi non solo della grande umanità, ma anche dell’acume critico e soprattutto della vivacità intellettuale di questa scrittrice certo troppo prolifica (più di settanta romanzi!), ma straordinariamente rappresentativa del suo tempo.

In effetti, chi cercasse le differenze fra la sensibilità del secolo dei philosophes, e degli abati licenziosi, e quella dell’Ottocento romantico, ne troverebbe un icastico compendio nel confronto fra Manon Lescaut (1731) e Leone Leoni, il breve romanzo di George Sand che è una riscrittura romantica del capolavoro dell’abbé Prévost, datata 1835 e ora edito per Siké (marchio del piccolo editore Euno di Leonforte, nella traduzione di Agnese Silvestri, che firma anche gli ottimi apparati critici, pp. 192, € 14,00).

Se l’ingenuo e innamoratissimo des Grieux era vittima del disinvolto, disinibito, amorale vitalismo materialista di Manon, in Sand, più prevedibilmente, è la donna, Juliette,  a nutrire una passione assoluta e pura, da buona figlia di un onesto e ricchissimo gioielliere belga. Quanto al protagonista eponimo, egli  prende in prestito il nome di un orafo e scultore aretino del Cinquecento (attivo però fra Venezia e la Lombardia),  ed è discendente di una nobile famiglia della Serenissima, ma spiantato e baro. Illusa Juliette, la rapisce alla famiglia (non senza una cospicua dote di pietre preziose) e, dopo una parentesi felice nelle valli ticinesi, la trascina in un vortice umiliante di tradimenti e crimini, fra Venezia e Milano.

Se nel demi-monde interclassista di Prévost si annullavano felicemente le differenze di ceto, in Sand è spesso ribadita la distanza sociale fra Juliette e Leoni, l’impossibilità, per entrambi, di assumere fino in fondo il punto di vista di classe dell’altro: del romanzo si potrebbe facilmente dare una lettura sociologica. Soprattutto, però, in Prévost il dramma d’amore e perfino la tragedia della deportazione nelle colonie americane, e della morte dell’eroina, non sottraggono al racconto quell’alone luminoso, quel ritmo travolgente, quella tonalità sbarazzina e perfino ilare che è l’etimo spirituale (se è lecito far ricorso a una categoria idealista) della stagione che si apre alla morte di Luigi XIV e si prolunga fin verso la metà del Settecento francese, insomma dell’esprit Régence; al contrario, il libro di Sand si caratterizza – lo ammette anche Silvestri – per una molto romantica «assenza di leggerezza».

Leone Leoni può essere letto, diremmo oggi, come una crudele autofiction sentimentale: il protagonista ha molto di Musset, con cui Sand aveva provvisoriamente rotto, dopo un burrascoso soggiorno proprio a Venezia. Ma offre soprattutto un concentrato esemplare dei topoi di un certo immaginario romantico: la fanciulla perseguitata, borghese ingenua e sentimentale, e forse un po’ masochista; il bello tenebroso, aristocratico e corrotto; l’incanto della natura incontaminata delle Alpi svizzere; un’Italia tinta di esotismo (non manca il carnevale di Venezia) e di noir goticheggiante (Silvestri sottolinea come nel personaggio di Leoni s’incarni anche, ma senza eroismo, il mito schilleriano del brigante); infine, naturalmente, la violenza delle passioni, «forza magnetica» e «calamita»: quella distruttrice per il gioco non meno di quella erotica. Un’inflazione di luoghi comuni, che tuttavia non rende affatto il testo scontato: questo il paradosso che ne fonda l’innegabile interesse.

Sand disinnesca volutamente ogni suspense gotica, affidando la narrazione di primo grado a Bustamente, il gentiluomo spagnolo che ha soccorso Juliette, abbandonata per l’ennesima volta da Leoni, ed è pronto a sposarla. Quando la ragazza, narratrice di secondo grado, prende la parola per raccontargli i suoi amori infelici – quasi un tentativo di esorcismo narrativo, che non propizierà tuttavia l’auspicata catarsi – il lettore ha già capito come andrà a finire. Certo, anche la duplice, opposta e incoercibile coazione di cui sono vittime i protagonisti è tipicamente romantica: lei non può fare a meno di seguire l’amato, anche se lo sa vile e ladro, infedele e assassino; lui è schiavo dell’impulso autodistruttivo a dissipare i suoi averi nel gioco e nel lusso, ogni volta che la sorte o il crimine gli restituiscono ricchezza. Ma i dilemmi byroniani, anziché risolversi in contrapposizioni manichee, finiscono per proiettare su Juliette e Leone un’inquietante, moderna complessità: perché il baro spregiudicato ammette con stupore ai suoi complici (e innanzitutto a se stesso) di amare veramente Juliette; e la rampolla fragile e timorata dell’onesta borghesia di Bruxelles sceglie consapevolmente una trasgressione degradante, accetta una sudditanza psicologica che ha esplicite connotazioni perverse: «Sono la sua donna, lui è il mio padrone, capisci: mi è impossibile sottrarmi alla sua passione e alla sua autorità».

I personaggi in apparenza positivi, il buon Bustamente e soprattutto l’onesto ma «crudele» Henryet, primo innamorato infelice di Juliette, si rivelano ottusi, aridi, prigionieri dell’ideologia benpensante, incapaci di vera generosità. La madre della protagonista, poi, è un’oca mondana all’inizio, una malata egoista alla fine. Invece, l’elegantissima e capziosa loquela di Leoni – per questo aspetto, incarnazione di un’ulteriore topos romantico: quello del tentatore mefistofelico, del diavolo retore e loico – ha un fascino ambiguo. L’avventuriero parla molto, e con la sua «speciosa eloquenza» rischia di intortare se stesso (e il lettore) oltre che la sua amante, finendo a volte per credere (e farci credere) ai fantasmi che teatralmente evoca. Come quando riconquista Juliette con un argomento singolare: insieme a un uomo onesto «saresti soltanto una donna perbene, laddove con un uomo come me sei una donna sublime». Così, al romanzo può essere a tratti riconosciuta anche una consapevole inflessione metaletteraria.

E dunque vale la pena di rileggere George Sand (magari non tutto quello che ha scritto…), per non rinchiuderla nello stereotipo campagnolo, per non confonderla troppo speso con la scrittrice per ragazze di buona famiglia che a volte è stata, o ha fatto finta di essere. Come scrive giustamente Silvestri, «ben più trasgressiva, varia, complessa, importante» è la sua opera, «come mostra anche questo mirabile racconto di una passione irresistibile e distruttrice che invischia, per perderla – o per risvegliarla alla vita? – la giovane vittima innocente di un avventuriero italiano».