Per dire quanto Flush – il cane di Elizabeth Barrett Browning, del quale sta scrivendo la biografia – fosse eccezionale, Virginia Woolf usa un paragone curioso: «Conosceva Firenze meglio di George Eliot». Flush, che mancava della parola, si orientava a Firenze «con la lingua, il naso, gli infinitamente sensibili polpastrelli delle dita dei piedi». Era irresistibile, scrivendo di quegli eminenti vittoriani che erano stati Elizabeth e Robert Browning, il richiamo a Firenze, loro città d’elezione e per i britannici, lungo tutto il secolo, città mito del nascente Regno d’Italia.

Ma irresistibile anche, per Woolf, l’acidulo omaggio a George Eliot, la grande e mai pienamente riconosciuta influencer della quale sottolineava quell’ombra di prolissità didattica che a tratti ne appesantisce la scrittura. Tutto si poteva dire di Mary Anne Evans (George Eliot fu il nome assunto per crearsi un’aura di virilità) tranne che fosse a corto di parole. E poiché veniva tirata in ballo Firenze, il romanzo al quale si alludeva fra le righe non poteva essere che Romola, un «polpettone» che si offrirebbe come ottimo canovaccio per una miniserie televisiva (piacevole traduzione di Giovanni Maria Rossi, Clichy, pp. 671, € 19,00). Nell’Introduzione, il traduttore parla di «linguaggio filmico» già per quel che riguarda la scrittura.

Pubblicato inizialmente a puntate sul Cornhill Magazine, Romola apparve in volume nel 1863. Per George Eliot, che aveva superato la quarantina e, pur avendo iniziato tardi la sua carriera di narratrice, aveva già pubblicato un capolavoro come Il mulino sulla Floss, è una svolta decisiva. Romola non sarà forse un altro capolavoro – nonostante la predilezione accordatagli da Henry James – ma di certo amplia il suo campo d’osservazione, passando dal mondo remoto dell’infanzia rurale e provinciale – ancora raccontabile in una lingua che rilavorava in prosa il lascito poetico delle wordsworthiane Ballate liriche (secondo la tesi di Mario Praz in La crisi dell’eroe nel romanzo vittoriano) – alla scena dell’Ottocento industriale e capitalista, impegnato a fare di Londra non la capitale del XIX secolo, bensì il centro operativo di un Impero metropolitano.

Nella capitale
George Eliot era arrivata a Londra avendo a proprio credito traduzioni impegnative: la Vita di Gesù di Strauss, l’Essenza del Cristianesimo di Feuerbach, parti dell’Ethica e del Tractatus theologico-politicus di Spinoza. Autodidatta, leggeva il latino, il greco, l’ebraico, il francese, il tedesco, lo spagnolo e l’italiano. Si sentiva destinata alla filosofia. La Westminster Review le offrì una posizione modesta, ma in compenso la introdusse nell’ambiente del cosiddetto «libero pensiero», dominato dall’astro nascente di Charles Darwin. Strinse amicizia con Herbert Spencer, e la sua già scossa fede nella verità letterale della Bibbia cadde definitivamente. Con rigore puritano si dichiarò «non più cristiana», e si legò in una partnership d’amore e di lavoro con George H. Lewes: critico, attore, e fisiologo dilettante.
George era sposato, ma l’altra «George» accettò senza battere ciglio la scandalosa convivenza che sarebbe durata fino alla morte di lui, nel 1878. Lo avrebbe seguito di lì a poco, ma non prima di avere impalmato l’amico di famiglia e futuro suo biografo John W. Cross, di vent’anni più giovane di lei.

Sette mesi dopo la celebre moralista dalla passionalità misteriosa e irrefrenabile se n’era andata.
L’idillio rurale di The Mill on the Floss terminava con la morte per acqua dei protagonisti. Dopo quel romanzo anche per lei terminale, George Eliot si prese una lunga vacanza, e partì per l’Italia. Fu lì che concepì il nuovo romanzo. Le era chiaro che Londra imponeva un’altra lingua. Negli intrecci della fase finale – Felix Holt the Radical, Middlemarch, Daniel Deronda – la mutazione antropologica indotta dalla Rivoluzione industriale è naturalizzata nei singoli destini individuali. I problemi sociali – condizione operaia, finanziarizzazione della city a scapito della provincia, questione ebraica – formano sfondi complessi, e al centro della tela brilla la passione d’amore.

Ma Romola è al di qua di questo inganno ottico. Sul filo dell’amato Manzoni, George Eliot trasporta i lettori in un tempo e in uno spazio che dalla Londra vittoriana più lontani non potevano essere. La vicenda si apre il giorno successivo a quello della morte di Lorenzo il Magnifico (8 aprile 1492) e si chiude sei anni più tardi, con la cattura e il supplizio di Gerolamo Savonarola.

Feroce fustigatore del culto mediceo della bellezza, il frate domenicano lanciava l’utopia repubblicana della «comunità dei puri». Non meraviglia che signori e popolani accorressero in massa ad ascoltare le prediche del frate che, a tinte di fuoco, dipingeva la loro stessa vita. Il recente passato era rinnegato, ma allo stesso tempo guadagnava il profilo netto e concluso di un period piece.

Romola raddoppia questo gioco prospettico. Investito dal pathos di un Umanesimo in crisi, il problema dell’autonomia decisionale delle donne – cuore moderno dell’opus eliotiano – scopre proprio in quel passato la propria radice. «Dentro di sé Romola stava lottando contro forze preponderanti: quell’immenso ascendente personale di Savonarola, che scaturiva dall’energia delle sue emozioni e delle sue convinzioni; e la propria consapevolezza, superiore a ogni pregiudizio, che le parole di lui implicassero una legge superiore». Savonarola è forza propulsiva che guida Romola all’affrancamento dalla potestà maritale, ma anche vox clamans dell’utopia machiavelliana di un Principe scelto dal popolo.

Le scene in cui Machiavelli discute di politica con Tito Melema, il giovane e avvenente avventuriero greco che Romola ha sposato, sono tra le tipiche «atrocità» (Woolf) eliotiane. Tuttavia contengono un alto tasso di sperimentalità: il genere peplum nasce da questa spudoratezza ottocentesca nell’aggredire il passato e rilavorarlo come cosa propria. George Eliot coglie il carattere germinale di quel momento, unico nella storia, in cui alla scoperta del mondo antico si veniva sommando quella di un Nuovo mondo. Intuì che la lingua per dire le inquietudini post-rivoluzionarie del presente colava giù da quel passato. La bellezza preraffaelita di Romola investì il mondo vittoriano di un flusso di nostalgia che scopriva le proprie radici nella Firenze del Quattrocento.

Competenza urbanistica
Certo, per ottenere l’effetto sperato era necessario aver metabolizzato quel passato, averne fatto sangue e nervi. E qui la minuziosa, «canina» competenza sull’urbanistica fiorentina venne in soccorso a George Eliot. Gli andirivieni di Romola nella città infettata dalla peste hanno la precisione toponomastica di un Baedeker. L’Oltrarno è già una piccola rive gauche, e la città di qua d’Arno una prima prova d’autore di rappresentazione della folla cosmopolita: affascinante miscela di ricchi mercanti e politici di dubbia moralità, artisti eccelsi e immigrati clandestini, eruditi di rango e pataccari esperti nello smercio di manoscritti e altre «antichità».