«Yes, but it’s one of the sad things of all time». La frase gli esce così, di getto, come se non potesse trattenerla, come se qualcosa di incontrollabile avesse preso per pochi istanti il controllo del suo corpo. Per A Star is Born (1954) avevi un magnifico script e un’attrice bellissima, di prim’ordine, gli aveva appena ricordato Gavin Lambert, a voce alta. George Cukor è lì, di fronte a lui, comprende immediatamente che l’affermazione di Lambert, posta in quella forma surrettizia, elogiativa, si appresta ad aprire più di una ferita. Anche per un regista come lui, avvezzo ai meccanismi, agli automatismi della “fabbrica dei sogni”, la frase appena pronunciata riporta in circolo profonde delusioni, momenti di scoramento e impotenza. Non è questa l’unica volta che a Cukor capiterà di vedersi tagliare un film, eppure, in questo caso, lo stoico fatalismo di chi si ritrova a lavorare all’interno di quella struttura piramidale che sono gli studios hollywoodiani, viene meno. E la figura tragica dei due protagonisti, Judy Garland e James Mason, si ribalta nella sorte del film. Pur mitigata dal tempo, la risposta di Cukor lascia in bella vista un sorriso storto: «Yes, but it’s one of the sad things of all time, the way the studio cut that picture! They not only cut it, they took the negative away and melted it down for silver. Judy Garland and I felt like the english Queen who had “Calais” engraved on her heart. Bloody Mary, wasn’t it? Neither of us could ever bear to see the final version». (G. Lambert, On Cukor. A Great Hollywood Director Producer, W.H. Allen, London and New York, 1973, p. 48).

Bisogna essere dei veri uomini di mondo per ambire alla completa invisibilità. Mi sono fatto l’idea che George Cukor lo sia stato, o almeno ci abbia provato ad esserlo, anche nei suoi film. Uomo di teatro si è spesso detto, senza che lo stesso interessato avesse qualcosa da ridire. Giunge al cinema, di cui fa il suo mestiere, ma senza apparire per nulla cinefilo. Preferisce libri, pièce teatrali e sfilate di moda alle sale cinematografiche. Forse uno snob? Per nulla. E’ un uomo sincero. Ne sa qualcosa anche Peter Bogdanovich, che l’ha incontrato e intervistato. Eppure qualcosa lo avvicina all’invisibilità. Odia, per esempio, i movimenti di macchina accentuati, dove tutta la potenza e la forza della tecnica si “sente” lì sullo schermo. Lui e la macchina da presa dovrebbero sempre restare non percepiti. Non è solo la vecchia storia della “linearità” orizzontale del dispositivo narrativo hollywoodiano, del montaggio invisibile, ma qualcosa che va ad incontrare un modo d’essere, più che un modo di rappresentazione. Come se l’anonimato fosse un ambizioso traguardo da raggiungere. Potrebbe condividere questa osservazione di Vincente Minnelli, riferita ai complessi movimenti di macchina da eseguire durante le riprese di An American in Paris: «Se sono ben fatti, il pubblico sarà solo cosciente dei movimenti dei ballerini, non di quelli della macchina da presa». Come se, in fondo, sia Minnelli che Cukor fossero – paradossalmente – due cineasti indipendenti, all’interno del sistema industriale hollywoodiano. Due cineasti che cercano di dare il proprio meglio, con il proprio lavoro, ma smaliziati a tal punto da sapere che la “macchina” hollywoodiana potrà fare ciò che vuole con quanto hanno realizzato.

A Star is Born è il primo film in Cinemascope e a colori realizzato da George Cukor, fatta eccezione per un rullo in Technicolor all’interno di The Women (1939). Cukor chiama accanto a sé George Hoyningen-Huene, un famoso fotografo di moda per “Harper’s Baazar” e “Vogue”; sarà la prima di una lunga serie di collaborazioni tra i due. The Robe è stato girato solo l’anno precedente, e il Cinemascope dona ancora una serie di grattacapi visivi e di messa in scena. Come ricorda lo stesso Cukor: «There were a lot of technical difficulties because they weren’t sure about the lenses then, and unless the exposure was absolutely right, everything would turn red. You were supposed to play everything on a level plane, with no depth of focus. There was almost no movement up and down, back and away from the camera. And you weren’t supposed to come in really close on faces. Almost everything, apparently, had to be thrown away. Well, we shot like that for one day – and then, with Gene Allen and George Huene, we said, “To hell with it”. We just paid no attention to that unfortunate mailbox shape, we ignored all the rules, we even cut much more quickly than we were supposed to. It was rather like what happened when sound came in, you were told to abandon everything you’d learned.» (G. Lambert, p. 52)

C’è chi come Fritz Lang considera il Cinemascope adatto a funerali e serpenti. George Cukor preferisce segnalarne la forma gestaltica, simile a quella di una busta postale (mailbox shape). Ma nel film, oltre al formato Cinemascope, è l’uso del colore che affascina e colpisce. Posto ancora un volta sotto l’insegna dell’invisibilità, il colore sembra quasi non emergere, eppure possiede un ruolo di primaria importanza; mai volgarmente esibito, si limita a lavorare inconsciamente, in profondità. Ne ha compreso brillantemente la sua funzione un critico come Carlos Clarens, che nella sua monografia, dopo aver magnificato l’intesa tra Cukor e Huene (che paragona a quella tra Welles e Toland), ne descrive così l’efficacia: «Much has been made, first and foremost by Cukor himself, of the invaluable contribution of Hoyningen-Huene to the chromatic complexity of this and succeeding Cukor pictures. (…) Hoyningen Huene’s subtle use of colour extends to the sets and costumes as well as to the photography: it supports the mood of the scene but never overwhelms it; it never resorts to the harsch, latter-day Expressionism of Alexander Golitzen at Universal, for instance; it never makes plot points but adds almost subliminal information on the characters». (C. Clarens, George Cukor, Seker & Warburg, 1976, p. 101)

Spesso nei film a colori di George Cukor, la tinta di un abito entra in rapporto con la scenografia, con l’illuminazione. Non solo nei musical dove il rapporto sembrerebbe più stretto e prevedibile. Ogni film procede declinando toni d’abito su fondali e scenografie, oggetti e luminarie al neon. Si pensi a A Star is Born. C’è la notte che apre il film, sul boulevard, le macchie rosse di fari e automobili, i fasci luminosi che tagliano il blu diffuso, e il giallo dorato del palazzo, il rosso del tappeto. La grana della pellicola sembra stranamente visibile, come se la ripresa fosse simile a quella di un lussuoso newsreel. C’è il nero dell’abito di James Mason e il blu della notte sovrapposta al blu più elettrico, al neon, del locale jazz in cui si reca per ascoltare Judy Garland. Basta un attimo per finire dentro il rosso acceso, del locale mentre, ai lati, il colore digrada, come se l’attenzione fosse tutta focalizzata in un determinato punto dell’inquadratura. Oppure si pensi a una delle sequenze più spensierate del film, all’interno dell’appartamento, tra pareti grigio-bianche, quadri dalle cornici del medesimo colore (in cui risaltano il blu e il verde), la camicia rosa di lei (su collant viola-bordeaux), l’abito marrone di lui. La Garland scimmiotta (raddoppia) un set, invocando perentoriamente l’accensione delle luci (che effettivamente si fanno più intense), e ordina “action” per quella che dovrebbe essere una “dream sequence”. Sale su un tavolino, siede su una poltrona bianca e si sposta all’interno di un perimetro-ribalta su cui possiamo notare tende beige, fiori giallo acceso, un divano giallo caki, cuscini rosa e viola, altri a righe, il verde delle piante sul fondo a sinistra, un sandwich sul tavolino di vetro, posacenere e carte da gioco. E il rosso vermiglio del suo rossetto.

In un suo testo, Jean Louis Schefer parla del colore come di un’apertura teatrale, materia che si presta a un collocamento dei ruoli in una finzione della realtà. (J.L. Schefer, “Matière du sujet”, Images mobiles. Récits, Visages, flocons, POL éditeur, 1999, pp. 187-88) Non è forse questo che entra un po’ gioco anche nei film di Cukor? C’è una scena formidabile in Heller in Pink Tights (1960) in cui Sophia Loren si ritrova a muoversi, bionda, in sottoveste e corsetto azzurro, su un fondale azzurro e bluastro, mentre Anthony Quinn la osserva più distante, sul bordo destro dell’inquadratura. Cerca abiti da indossare e, nervosa, chiede consiglio a Quinn. Prende da un armadio indumenti bianchi, rosso bordeaux. Li scuote chiedendo quale indossare. Lo specchio quadrato sul fondo, la bacinella e l’attaccapanni: per alcuni istanti, gli indumenti fluttuano e sembrano far reagire il fondo cromatico, mischiando azzurro, bianco e rosso bordeaux, raddoppiando la tensione che cogliamo nella recitazione della Loren. Sembra quasi di trovarsi, involontariamente, davanti a un gesto color field di Morris Louis, posto anacronisticamente in una specie di spogliatoio sperduto nel Far West, una specie di minuscola ribalta teatrale la cui scenografia ricorda quella della Nana di Manet (ma Cukor cita come fonte di ispirazione Renoir). Solo che il divano su cui si dovrebbe trovare l’uomo con il cappello a tuba è stato spostato sul bordo del quadro, dove siede un divertito Anthony Quinn. Una piccola ribalta all’interno di un’altra, quella posta dentro il locale su cui agisce la compagnia teatrale.

Idea del maquillage, del tono cromatico in rapporto ad altri elementi del set. Davanti all’entusiasmo di Gavin Lambert per l’uso del colore, Cukor esclama: «[The Colour] is ravishing! Beautiful, beautiful sets, too!» E a proposito delle scenografia, ci tiene a ricordare quella del saloon, rosso-arancione: «That one was Gene Allen’s idea. It’s a beautiful moment when Sophia Loren walks into it, wearing white, with all the men in black» (G. Lambert, p. 237) E il film in fondo è tutto lì: nel cromatismo acceso di una capigliatura che reagisce contro il tono di un fondale. E nella recitazione, l’umorismo di Sophia Loren, la sua leggerezza. A Cukor sembra bastare questo. Infatti lo script si sfalda completamente verso il finale, chiudendosi in un anonimo melodramma, gli ricorda Lambert. «No real story there, as I said – risponde Cukor –. But didn’t you like some of the performances, too? I thought Sophia Loren very good, light and humorous». (G. Lambert, p. 239)

Ogni film pone una riflessione e uno studio preciso del colore, in rapporto al tono della vicenda, il suo mood, unito al comportamento dei personaggi, al loro carattere volubile. Possiamo notare questa insistenza, quasi un’urgenza, nelle stesse riflessioni di Cukor. Riguardo a Bhowani Junction (1956), altro film tagliato, il cui colore sembra immerso in uno strano «marrone bruciacchiato» (rather burnt-out brownish tone), egli ricorda: «It was the way it looked to me. I was so aware of the unexpected things. You see the grandeur and the exposed electric wires at the same time. You see a great place like the Taj Mahal and then suddenly a clothes tree and a Grand Rapids desk! All these things give an air of verisimilitude, of confusion, that is exciting. And technically it was a great challenge, you couldn’t tell were the real interiors stopped and the studio sets began». (G. Lambert, p. 224) E che dire del colore della pelle di Ava Gardner? I suoi abiti variano dal bianco a verde militare, fino a quel rosso accesso che buca la notte in una delle sequenze finali, così carica di tensione e erotismo, mentre cammina lungo le rotaie della ferrovia per fuggire su un treno. E’ il colore qui a parlare e a donare una nuova funzione al personaggio e alla vicenda?

L’abito è insomma una superficie, una materia colorata che reagisce chimicamente e cromaticamente con la scenografia, producendo senso, accentuando una personalità. Che cosa sono queste figure se non creature composte da un pigmalione grazie a un’opera di maquillage (luministico, cromatico, cosmetico)? In The Chapman Report (1962) uno dei film più strabilianti di Cukor, passato anch’esso tra le forbici della produzione, ognuna delle protagoniste viene caratterizzata da un colore d’abito: «Each woman wore a single color all the way through: Jane [Fonda] always wore white, Claire [Bloom] was always in black, Glynis Johns in beige. Claire wore no bra, so her breast moved, and it seemed erotic, you always felt the dress was going to fall off or one of her breasts would pop out». (G. Lambert, p. 142) In questa moderna storia di donne (la versione anni ’60 di The Women), ispirata ai “Kinsey Reports”, tra sedute da psicoanalisti, adulterio, ninfomania e frigidità, ogni colore determina e prevede un suo spartito drammaturgico: da qui il tono del film, che oscilla tra la commedia e il dramma. In una delle sequenze più divertenti, Glynis Johns, una donna perennemente accompagnata da registratore e microfono su cui fissare i testi poetici che sta leggendo, come se la sua vita fosse un perenne sogno ad occhi aperti, una parte da recitare, si trova in spiaggia a declamare l’ennesimo testo poetico. La sabbia, l’abito beige sulla pelle rosea, il rossetto e i capelli biondi, il fard, il telo giallo, le onde del mare, il cielo azzurro, il registratore blu polvere: declama un testo disturbata da quattro atletici giocatori di football americano. Uno di questi le rotola addosso. Si scusa con gentilezza, mostrando uno splendido sorriso. Lei ne è attratta. Lui torna a giocare. Lei riprende a declamare, ma confonde il testo con osservazioni sul suo fisico. Alcuni stacchi ci mostrano il ragazzo ripreso in contro-plongée, sotto un cielo reso di un blu quasi acrilico. E’ un momento davvero ilare, dove in pratica non accade nulla. E’ un momento di puro svago estivo, simile a quello che troviamo riprodotto in tante fotografie d’epoca. Figure sorridenti, scioperate e felici che mi fanno pensare a certi quadri iperrealisti che di lì a poco dipingerà Malcolm Morley (Beach Scene, 1968). E come nei quadri di Morley, anche qui sembra non apparire nulla, se non una specie di sottile ironia sottopelle, carica di ambiguità.

Ritroviamo forse qui tutta la maestria di George Cukor. Se in apertura parlavamo di invisibilità, ebbene, forse questo esempio ne rende pienamente giustizia. E’ come se il cinema non esistesse, sparisse annullandosi nell’accuratezza del proprio farsi. Senza farsi notare, appunto. Il gioco degli attori, la composizione cromatica: quasi non percepiamo la presenza della macchina da presa.

E’ semplicemente un modo di vedere le cose, spiega Cukor a Gavin Lambert. «Before I made Pat and Mike I watched Bill Tilden play tennis. Eight hundred years ago I’d played the game myself, and all I remembered was balls coming at me in the most unexpected way. Now, through Tilden’s eyes and notions, I could see what the whole game was about, and it seemed very simple – he was always where the ball should be. There was nothing hurried, nothing out of control. That left its imprint.» (G. Lambert, pp. 159-60) La sua grande lezione si nasconde qui.