Un ispettore di polizia che non vuole più occuparsi del mondo, una ragazzina che disperatamente cerca di avere un po’ di attenzione. La solittudine ghiacciata di case vuote e ricordi che si vogliono soffocare. I sentimenti impazziti che disegnano una geometria ignota della metropoli, una Milano «nera», sfuggente, di cui la luce (modulata magnificamente da Renaud Personnaz) proietta il battito del nostro tempo. É «la variabile umana», qualcosa che è fuori controllo, che esplode all’improvviso, fa male, devasta. E impone scelte, o almeno una diversa attenzione. Essere padri e essere figli, usare il corpo di ragazzina per soldi, per noia, perché così si fa.
La variabile umana, da oggi nelle sale dopo il passaggio a Locarno in Piazza Grande, è l’esordio nel lungometraggio di un giovane regista, Bruno Oliviero, che come i talenti migliori del nostro cinema più recente – pensiamo a Leonardo Di Costanzo col quale tra l’altro Oliviero ha co-diretto Odessa (2006) – ha alle spalle un lungo lavoro nel documentario. Eppure di «documentaristico» nel film non c’è nulla, nessuna caduta nell’attualità, anche se si parla di giovanissime che vanno con uomini vecchi e maturi … È piuttosto la materia del cinema che viene messa alla prova, il lavoro sulla regia (complice il montaggio di Carlotta Cristiani), come già in Di Costanzo, quasi che il «documentario» (ma poi questa differenza quanto è fittizia) sia palestra e complemento all’elemento narrativo di un immagine che riflette su di sé e sul proprio tempo. E insieme cerca un diverso confronto con la macchina cinema, qui visibile nell’attore protagonista, Silvio Orlando, fatto recitare in sottrazione – nel cast ci sono anche Sandra Ceccarelli e Giuseppe Battiston e l’esordiente Alice Raffaelli.
«A questa storia ho cominciato a pensare qualche tempo fa, leggendo le cronache sul bunga-bunga e sui festini dal premier con le ragazze», dice Bruno Oliviero.

Cosa ti aveva colpito?

Soprattutto l’orgoglio con cui i genitori parlavano delle figlie «prescelte» da Berlusconi. Anche se poi, quando sono venuti fuori i dettagli più duri, molte di loro si sono tirate indietro. C’era un grande tristezza in tutto questo che io non vedo come un fenomeno solo italiano, la coscienza delle ragazze rispetto alla possibilità di usare il proprio corpo è un sintomo del nostro tempo e dell’occidente.

Però anche se hai sempre lavorato nel «documentario», hai preferito fare una «finzione».

Era impossibile per me pensare a un documentario sui sentimenti, perché di questo si parla. Inoltre avevo l’impressione che sarebbe stato banale, con un effetto di «già visto». L’elemento narrativo mi permetteva invece di spostare il piano del racconto, a cominciare dalla figura istituzionale in questione. E di addentrarmi in angoli più nascosti.

Il rapporto tra un uomo maturo e una ragazzina diviene nella storia quello tra un padre e una figlia. Perché?

Mi sembrava che fosse la cifra giusta per sottolineare quella componente di ambiguità che c’è in una relazione simile. E proprio perché le cose tra i due erano estremamente chiare, un padre e una figlia senza alcuna implicazione incestuosa. Però, come accade nella scena quando si trovano insieme in albergo, il semplice fatto di vedere un uomo anziano con una adolescente crea subito un’ambiguità. Era appunto il terreno che volevo esplorare.

La narrazione nel tuo film è una scelta di regia, tutto passa per le immagini più che per la storia. Una scommessa alta per un esordiente.

La questione che mi si è subito posta era come far corrispondere agli stati d’animo le immagini. La situazione di partenza era: un tipo depresso per la morte della moglie si risveglia all’improvviso perché la figlia compie un gesto inconsulto. Volevo ottenere un’atmosfera sospesa contro il didascalismo di certe situazioni che sono nella scrittura, era l’unico modo per non appesantire l’andamento narrativo. Il film è aperto, non solo nel finale, ma così deve essere visto che parla di sentimenti e per lo più inespressi. Quando mi dicono che certi personaggi mancano di psicologia per me è un complimento. Non amo quei film che spiegano tutto. In effetti la mia ambizione è ancora più alta: sarei felice se il film percorresse quel crinale in cui ognuno vede le cose in modo diverso, e se guardandolo lo spettatore potesse metterci le proprie esperienze. Volevo utilizzare gli strumenti che il cinema mi metteva a disposizione. Così ho fatto delle scelte, come tenere i personaggi a due a due in campo, o cercare la continuità nei dialoghi … Ho ripreso dall’alto il personaggio di Silvio Orlando non per un impulso estetizzante ma per rendere visibile il suo essere schiacciato dalla vita e insieme nascisista. Ripeto: la corda su cui ho puntato è quella dell’ambiguità, evitando la sociologia o una lettura a senso unico dei personaggi.

Silvio Orlando nel ruolo dell’ispettore Monaco, è molto diverso da come siamo abituati a conoscerlo sullo schermo.

È stato molto coraggioso a accettare la sfida, offrendo per la prima volta un altra immagine di sé. Ecco, questo è forse il lato più vicino al documentario che c’è nel film. É come se avessi raccontato la sua trasformazione di attore.